Ma dove si finirà con questi social? Noi qui.
Qualche giorno fa discutevo con alcuni amici, per una volta non di calcio né di politica ma di quale sia l’ambito del vivere umano a essersi sviluppato più rapidamente negli ultimi tempi. Scienza, cultura, tecnologia, la domanda era: cosa ha vissuto negli ultimi decenni le innovazioni più repentine e potenti nel cambiare la vita delle persone?
Qualcuno non era d’accordo, ma la mia risposta è stata “la comunicazione”. Risposta forse, anzi sicuramente, influenzata dal mestiere che faccio; però credo sia indubbio che il modo di comunicare sia da sempre un fattore di cambiamento e che, soprattutto negli ultimi anni, tutto quel che è comunicazione abbia avuto uno sviluppo che ha del fenomenale.
Uno sviluppo vissuto soprattutto nell’evoluzione dei mezzi, degli strumenti di comunicazione. Uno via l’altro, con una successione e un tasso di innovazione quasi da far fatica a starci dietro. Sembrano secoli, invece è stato un attimo passare dai telegiornali alla notifica della breaking news sul cellulare, dalla radio con l’antenna alla musica in streaming, dal telefono che bisognava aspettare che la rotella tornasse indietro prima di poter comporre un altro numero alle videochiamate di gruppo via smartphone. Dai giornali, è convinto purtroppo più di qualcuno, ai social media.
Viviamo nell'epoca della comunicazione, anche se si dice ormai da molto tempo. Parole dalla dolce melodia per chi ci lavora nella comunicazione, ma che per i più hanno invece un’accezione prettamente negativa. Epoca della comunicazione uguale epoca dell’effimero, epoca del tutto è pubblicità, del protagonismo senza merito e fine a sé stesso. La previsione di Andy Warhol, «in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti», che si trasforma in rumorosa realtà.
In effetti pare proprio così, ora tutti sono comunicatori, tutti diffondono idee e informazioni proprie e altrui, tutti cercano consenso e l’”effetto wow” per ottenerlo. Un’onda di comunicazione che sembra rappresentare – e di certo condiziona – l’opinione pubblica. Una marea di dati, di contatti, di relazioni che grazie alla potenza e al sempre più basso costo delle tecnologie ha raggiunto la maggior parte delle persone nel mondo. Gli ultimi numeri dicono che a ottobre 2018 gli Internet active users sono 4,2 miliardi di persone. E che l’81% di questi sono sui social media. Significano 3,4 miliardi di persone, più della metà della popolazione mondiale, a cui ogni anno se ne aggiungono altri 300 milioni, un numero enorme. Per fare un paragone, il numero di televisori di uso domestico nel mondo non raggiunge 2 miliardi. E per arrivarci a questo numero la TV c’ha messo più di 70 anni.
E le aziende? Le aziende cercano di stare a ruota di questa evoluzione tecnologica e di questo fenomeno, inseguendo le generazioni X, Y e Z, i Millennials, i post-Millennials e via dicendo. “I giovani sono già su altro e lì dobbiamo essere, se vogliamo essere al passo con i tempi e parlare con il consumatore di domani” è il refrain di chi pare saperne più degli altri.
Tutti connessi quindi, cittadini, aziende, per non parlare dei politici. Tutti dispensatori di informazioni, tutti esposti a una sorta di assuefazione e, quel che è peggio, agli effetti della democratizzazione delle competenze. Uno di questi effetti, evidente a tutti, è l’esposizione pressoché continua a informazioni infondate, alle cosiddette bufale. Un fenomeno epocale, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Tanto che il dizionario Collins, che ogni anno indica la parola più significativa del momento nel mondo, per il 2017 elesse proprio il termine «fake news».
Se ne parla ancora molto e continua a essere uno dei temi chiave nell’industria della comunicazione. È recente la pubblicazione dell’European Communication Monitor 2018, un’indagine effettuata tra oltre 3.000 professionisti della comunicazione in 22 Paesi europei. Secondo la metà degli intervistati le fake news stanno influenzando in maniera concreta e importante ogni aspetto della sfera pubblica. E per l’81%, la stragrande maggioranza, la responsabilità è dei social media.
Un addebito di responsabilità, quello ai social media, che sembra trovare quasi tutti d’accordo. Anche se a me sembra sempre la solita solfa. Il dare la allo strumento la colpa degli stravolgimenti nella vita delle persone che l’uso ne determina è qualcosa di già sentito. Mi pare ancora di sentirla, mia nonna: “È tutta colpa di quella scatola diabolica se un giorno ti rimbecillirai”. Quella scatola era la TV e non so se abbia avuto gli effetti previsti. Fatto sta che come allora si diceva che la televisione stava cambiando la mente delle persone, corrompendo soprattutto i più giovani, ecco che oggi si dice la stessa cosa dello smartphone. Sta cambiando la testa della gente, non solo le abitudini ma anche il modo di pensare e il modo di rapportarsi agli altri. In peggio, ovviamente.
E qui prendo a prestito un passaggio dell’ultimo libro di Baricco, The Game. Lettura obbligatoria per chi si occupa di comunicazione e per tutti coloro che hanno vissuto a cavallo della rivoluzione digitale.
“Ci incartiamo su un banale errore di prospettiva, anche comprensibile, ma difficile da sradicare: crediamo che la rivoluzione mentale sia un effetto della rivoluzione tecnologica, e invece dovremmo capire che è vero il contrario. Pensiamo che il mondo digitale sia la causa di tutto e dovremmo, al contrario, leggerlo per quello che probabilmente è, cioè un effetto: la conseguenza di una qualche rivoluzione mentale. Guardiamo la mappa alla rovescia, giuro, bisogna girarla. Bisogna invertire quella dannata sequenza: prima la rivoluzione mentale, poi quella tecnologica. Pensiamo che i computer abbiano generato una nuova forma di intelligenza (o stupidità, chiamatela come volete): invertire la sequenza, subito: un nuovo tipo di intelligenza ha generato i computer. Che vuol dire una certa mutazione mentale si è procurata gli strumenti adatti al suo modo di stare al mondo e lo ha fatto molto velocemente: quel che ha fatto lo chiamiamo Rivoluzione Digitale. Continuate a invertire la sequenza e non fermatevi. Non chiedetevi che tipo di mente può generare l’uso di Google, chiedetevi che tipo di mente ha generato uno strumento come Google. Smettetela di cercare di capire se l’uso dello smartphone ci disconnette dalla realtà e dedicate lo stesso tempo a cercare di capire quale tipo di connessione alla realtà cercavamo quando il telefono fisso ci è sembrato definitivamente inadatto. Il multitasking vi sembra generare una sostanziale incapacità di prestare la dovuta attenzione alle cose: invertire la sequenza: da quale angolo stavamo cercando di venir fuori quando ci siamo costruiti degli strumenti che ci consentivano finalmente di giocare su più tavoli simultaneamente? Se la rivoluzione digitale vi spaventa, invertite la sequenza e chiedetevi da che cosa stavamo scappando quando abbiamo infilato la porta di una simile rivoluzione. Cercate l’intelligenza che ha generato la rivoluzione digitale: è assai più importante che studiare quella che ne è stata generata: ne è la matrice originaria. Perché l’uomo nuovo non è quello prodotto dallo smartphone: è quello che lo ha inventato, che ne aveva bisogno, che se l’è disegnato a suo uso e consumo, che lo ha costruito per fuggire da una prigione, o rispondere a una domanda, o zittire una paura”.
"L’uomo nuovo non è quello prodotto dallo smartphone: è quello che lo ha inventato, che ne aveva bisogno". Un uomo che evidentemente aveva bisogno di maggiore connessione, in un mondo diventato improvvisamente più piccolo. Che aveva bisogno di un accesso più diretto e rapido alle informazioni, in anni in cui è diventato evidente a tutti come siano le informazioni a determinare i vantaggi. Che aveva bisogno di maggiore condivisione, in un’epoca di crisi dei principali veicoli di partecipazione, a cominciare dalla politica e dalla religione confessionale.
Si può ovviamente essere d’accordo o meno. Ma è chiaro che chi si occupa di comunicazione non possa esimersi da una riflessione personale e professionale sul tema. Del resto, se è vero che ogni professione è un’espressione di conoscenza, per il comunicatore, ho imparato in questi anni, tale conoscenza riguarda tre ambiti:
1. Conoscere quello di cui si parla
2. Conoscere il contesto in cui si parla
3. Conoscere i meccanismi che regolano gli strumenti con cui si parla
Facile a dirsi…
Dato per scontato il primo punto (conoscere quello di cui si parla, che poi tanto scontato non è), l’impressione è che aziende e istituzioni negli ultimi anni, disorientate dal fragore e dalla rapidità della rivoluzione digitale, si siano concentrate sul terzo punto: cercare chi, nel mondo della comunicazione, potesse guidarle nel comprendere i meccanismi di questi nuovi mezzi di comunicazione, di queste scatole diaboliche, per dirla come mia nonna.
E così, come una ventina di anni fa non si poteva non avere un sito internet, e quindi pronti via sono comparsi sul mercato frotte di professionisti pronti a imbastire un sito in men che non si dica, ecco che negli ultimi anni, nei quali “non puoi fare marketing senza essere sui social”, sono nate delle figure nuove, social media manager, agenzie di digital pr e chi più ne ha più ne metta, tutti pronti a garantire che, una dose di creatività e due dosi di conoscenza degli algoritmi, la soluzione era lì solo a due click di distanza. Un faro per chi brancolava nel buio. Dashboard, call to action, engagement, reach, meme. Serve gente immersa in queste terminologie, serve gente smart, che conosca i millennials, che sappia ingaggiare i follower, meglio se un po’ hipster. Anche un filo geek ma non troppo. E soprattutto giovane, giovanissima. Mi è capitato recentemente di parlare con un boss di una delle agenzie di comunicazione digitale più quotate sul mercato, appena quarantenne, che mi diceva: “La presentazione? No, non la faccio io, non sarei credibile. Mando i ragazzini”.
Età bassa, costi bassi e la qualità… direi proporzionale. Non dal punto di vista creativo, ci mancherebbe. Ogni giorno si vedono delle cose fenomenali in rete. Fantasiose, divertenti, commoventi. WOW. Ma ora forse questo non basta più. La bufera in cui sono incappati Dolce & Gabbana in questi giorni è lì a dimostrarlo.
La sfida oggi è quella di essere consistenti e credibili, comunicare non solo per intrattenere e divertire, ma tornare a farlo anche per essere distintivi e utili, per dare un valore aggiunto. Sapendo però capire il contesto e il contenuto, che non è banale. Del resto, sempre secondo il già citato European Communication Monitor, il 40% dei comunicatori d’azienda europei il principale obiettivo della propria attività da qui fino al 2022 sarà la costruzione e il mantenimento della fiducia.
È per questo che nel nostro piccolo con i colleghi abbiamo voluto lanciarci in una nuova avventura.
Crediamo che la comunicazione stia tornando alla propria vocazione, quella del dialogo si ma nel quale chi parla è soprattutto chi ha qualcosa da dire, non solo chi ha gli strumenti per farlo. E che è apprezzato soprattutto per il valore di quello che dice, oltre che per come lo dice. Abbiamo così creato bDigital, una nuova casa nella quale mettere all’opera comunicatori esperti nell’ambito della comunicazione tradizionale - che ha i suoi valori e le sue competenze che stanno tornando a essere vincenti - e professionisti più giovani, figli della nuova era, con le conoscenze tecniche e la creatività per muoversi con agilità e efficacia tra gli strumenti contemporanei.
È dedicata alle aziende a cui, come noi, non basta più comunicare in maniera digitale, ma che vogliono Comunicare in un mondo digitale.
Per chi vuole saperne di più: www.bDigitalteam.com