Mutilazione genitali femminili.
Sull'articolo 583 bis cod. pen.
In molte tradizioni culturali vigono pratiche che intervengono sugli organi sessuali, maschili e femminili. Si parla di circoncisione, per gli uomini, e di circoncisione, escissione ed infibulazione per le donne.
La lingua giuridica araba impiega la parola khitan per la circoncisione maschile e i termini khafd o khifad per la circoncisione femminile; si parla, altresì, di taharah che significa purificazione, poiché tali mutilazioni si ispirano ad un'istanza di purificazione per coloro che le subiscono.
Le pratiche escissorie femminili sono molto diffuse in vari paesi di religione musulmana; in particolare nel Sudan, nella Somalia e in Egitto, ma anche in paesi asiatici musulmani (India, Pakistan, Malesia).
Sono sconosciute alla maggioranza dei paesi del Maghreb (Turchia o Iran), mentre sono diffuse presso numerose tribù animiste africane.
La pratica di asportare parte dei genitali femminili, in molte etnie africane, è radicata profondamente e può essere definita come una pratica tradizionale che rientra nei riti di passaggio, ovvero in quei cerimoniali che guidano, controllano e sigillano i mutamenti di status, di ruolo o di età delle persone, ne marcano le varie fasi del ciclo di vita trasformandole, così, in un percorso ordinato che soddisfa il bisogno di identità e di riconoscimento.
Conosciuta sin dall'antico Egitto, tale pratica assume, quindi, un significato antropologico notevole e deve essere tenuto bene a mente quando si discorre di condotte che potrebbero rientrare nell'alveo di asportazioni aventi rilevanza penale.
“Mutilazioni dei genitali femminili” è il nome che è stato dato, in occasione della III Conferenza del Comitato Inter-Africano sulle pratiche tradizionali rilevanti per la salute di donne e bambine/i, a tutte quelle pratiche tradizionali in cui si ha l’asportazione e/o l’alterazione di una parte dell’apparato esterno di una donna.
E' stato sostenuto che tale locuzione, nonostante non sia completamente neutrale e addirittura lasci affiorare un atteggiamento di condanna, ha la caratteristica di avere un forte impatto emozionale ed è l’unica che esprime, in modo chiaro e diretto, la severità e l’irreversibilità del danno provocato, sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Nel 1991 furono le Nazioni Unite, durante un seminario tenutosi nel Burkina Faso, a confermare il favore per tale nuova terminologia che divenne, così, di uso comune.
Per via dei potenti flussi migratori dall'Africa, dal Medio Oriente e da alcune regioni dell'Asia, anche i paesi occidentali sono venuti a conoscenza del fenomeno, in precedenza ignorato a livello sociale e del tutto privo di rilevanza giuridica.
FATTISPECIE INDIVIDUATE DALL'O.M.S.
Le agenzie orbitanti nell'ambito dell'Onu hanno incominciato ad interessarsi delle mutilazioni genitali femminili (Mgf) nel 1958, allorché il Consiglio Economico e Sociale dell'Onu ha invitato l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ad intraprendere uno studio sulla persistenza dei costumi che sottomettono le donne ad operazioni rituali e sulle misure o progetti per mettere fine a queste pratiche.
Nel 1959 l'Oms rispose a tale interpello nel senso che le operazioni sui genitali femminili sarebbero state l'effetto di concezioni sociali e culturali dei Paesi in cui le stesse erano eseguite e, in quanto tali, non erano di competenza dell'Oms.
Successivamente ha abbandonato tale riserva, approvando nel 1977 la creazione di un gruppo di lavoro sulla escissione degli organi genitali femminili esterni e coinvolgono altri organismi internazionali delle Nazioni Unite, come in particolare, l'Unicef, a seguito anche della pubblicazione dell'inchiesta della giornalista Fran P. Hosken circa la stima statistica delle operazioni diffuse nel mondo.
Nel 1995 la Quarta Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle donne tenutasi a Pechino condannò vigorosamente tali pratiche equiparandole ad atti di violenza sessuale.
Il movimento internazionale portò nel 2001 il Dipartimento per la salute delle donne della famiglia e della società dell'Oms a classificare definitivamente le varie tipologie di mutilazioni genitali femminili.
Si tratta di quattro tipologie di operazioni che coinvolgono, in maniera differente, gli organi genitali della donna:
- escissione del prepuzio, che ricopre la sola parte anteriore del glande clitorideo;
- escissione della clitoride con asportazione parziale o totale delle piccole labbra;
- escissione di parte o di tutti i genitali esterni e sutura/restringimento dell'apertura vaginale (infibulazione);
- operazioni, non specificamente classificate, che includono:la perforazione, a penetrazione o incisione della clitoride e/o labbra; lo stiramento della clitoride o delle labbra; la cauterizzazione mediante ustione della clitoride e del tessuto circostante; il raschiamento del tessuto circostante l'orifizio vaginale o l'incisione della vagina; l'introduzione di sostanze corrosive o erbe in vagina per causare emorragia o allo scopo di serrarla o restringerla.
Le pratiche più frequenti di Mgf sono del primo e del secondo tipo -80%-; quelle del terzo tipo ammontano al 15% e quelle del quarto non superano il 5% dei casi. (fonte: Female Genitale Mutilation, Report of a Who Techincal Working Group, in Geneve)
Con Risoluzione del 2001 (concernente “Mutilazioni genitali femminili”, di ferma condanna delle stesse, in quanto violative dei diritti umani fondamentali) l'Unione Europea ha chiesto agli Stati membri di adottare legislazioni di settore che considerassero reato qualunque tipo di mutilazione genitale femminile (Ris. del 20.09.2001 n. 2035, GUCE C 77 E 28.03.2002).
IL REATO DI CUI ALL'ART. 583 bis C.P.
Nel nostro Paese la fattispecie prevista e punita dall'art. 583 bis c.p. è stata introdotta dall'art. 6 della L. 09.01.2006 n.7.
Già dai lavori preparatori si faceva esplicito richiamo alle precisazioni svolte nella Risoluzione n. 2035/2001, la quale definiva: “qualsiasi mutilazione genitale come un atto di violenza contro le donne equivalente alla violazione dei suoi diritti fondamentali in particolare il diritto all'integrità personale, alla salute fisica e psicologica, nonché ai suoi diritti sessuali e riproduttivi”.
L'articolo in commento contempla due nuove figure di reato:
- la mutilazione, in assenza di esigenze terapeutiche, degli organi genitali femminili, punita con la reclusione da 4 a 12 anni e
- le lesioni, diverse da quelle indicate al 1° comma, pure in assenza di esigenze terapeutiche, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, compiute al fine di menomare le funzioni sessuali, punite con la reclusione da 3 a 7 anni.
Dalla semplice lettura della norma si arguisce subito che essa si pone come disposizione speciale rispetto alle fattispecie previste dagli articoli 582 e 582 c.p., a cui erano riconducibili le ipotesi descritte dalla riforma.
La ratio di tale scelta è duplice: si è voluto dare attuazione alle spinte internazionali, dalla Dichiarazione e Piattaforma di Pechino alla Risoluzione 20.09.2001 n. 2035 del Parlamento Europeo, spesso richiamate dai lavori preparatori.
Inoltre, si è così rimarcato simbolicamente il disvalore e la deprecabilità della condotta incriminata.
Dal punto di vista processuale, invece, si è voluto sottrarre il bilanciamento delle circostanze operante con le norme degli articoli 582 e 583 c.p., impostando una pena edittale molto più severa e inderogabile dal giudice discrezionalmente.
A tale proposito si deve rilevare, per completezza espositiva, che in dottrina non è apparsa congrua rispetto al criterio di politica criminale di utilizzare lo strumento penale come extrema ratio, come supporto eventuale di altri strumenti, più adeguati a contribuire all'integrazione di gruppi sociali umani che vivono nell'ambito di tradizioni ed esperienze diverse da quella occidentale (Fusachi).
Per ciò che attiene al bene giuridico tutelato dalla norma, esso è sicuramente complesso poiché composto dall'integrità fisica e dalla salute (o benessere) psico-fisico della donna, nonché dalle istanze di eguaglianza tra l'uomo e la donna (sul rilievo che gli interventi sui genitali femminili costituiscono tradizionalmente uno strumento di controllo maschile e/o comunque sociale sulla sessualità femminile) e dalle istanze relative alla dignità ed alla libertà di autodeterminazione della donna.
Sul tipo di esegesi operata dalla Suprema Corte in merito alle condotte individuate dall'art. 583 bis c.p., si noti che che essa è stata non letterale, sulla scia delle indicazioni fornite dall'Oms che individua le mutilazioni illecite solo in quelle afferenti i genitali c.d. esterni.
Difatti, se eventuali pratiche sugli organi genitali interni avrebbero afferenza con la capacità di procreare e l'eventuale loro previsione punitiva porrebbe problemi di compatibilità con l'ammissione giuridica della sterilizzazione non terapeutica, secondo l'orientamento della giurisprudenza susseguente a Cass., sez. V, 18.03.1987 (c.d. Caso Conciani), le pratiche sugli organi genitali esterni (che presentando elevata sensibilità per la loro ricca innervazione, sono ricettivi di stimoli connessi agli atti sessuali) sono normalmente orientate ad esercitare un controllo sul piacere legato all'esercizio dell'attività sessuale.
Controllo esterno sullo svolgimento dell'attività sessuale femminile che le norme incriminatrici intendono precipuamente stigmatizzare come illecito.
Passando all'esame dell'elemento soggettivo, è interessante rilevare che il dolo specifico richiesto di “menomare le funzioni sessuali” porta con sé difficoltà interpretative, quanto meno perché il finalismo che determina le operazioni escissorie sugli organi genitali femminili, specie quando non si tratti di infibulazione o clitoridectomia, è assai complicato.
Si spiegherebbe solo alla luce del significato rituale ed identitario che è diffuso in molte comunità -non solo di impronta islamica- del mondo.
E siccome non si può dire che tali rituali siano compiuti allo scopo precipuo di limitare le funzioni sessuali quanto, piuttosto, allo scopo di far conoscere e riconoscere una differenza della condizione femminile (conosciuta e riconosciuta anche da colei che la subisce), la previsione di un dolo specifico sembrerebbe un inadeguato approccio culturale al fenomeno.
La prassi, sulla scorta della dottrina più attenta e delle influenze internazionali, però, interpreta la disposizione di cui all'art. 583 bis c.p. nel senso di comprendere nel concetto di “menomare le funzioni sessuali” quello di “incidere sul piacere sessuale”.
All'uopo sembra opportuna una lettura di una pronuncia di merito che in tema di elemento soggettivo integrante il reato di cui si discute, ha osservato: “Il problema interpretativo si sposta allora su un duplice piano : da un lato, In relazione alla corretta individuazione descrittiva del fine / scopo che agisce la condotta tipica prevista dalla norma , in quanto oggetto di rappresentazione e volizione da parte dell' agente , dall'altro, sul metodo di accertamento dello stesso. Sotto il primo profilo, deve rimarcarsi la non agevole interpretazione della dizione letterale proposta dalla norma e, d'altra parte, la necessità di compiere tale sforzo proprio per consentire una definizione di un elemento normativo che incide sia in termini di tipicizzazione della condotta materiale sia e di conseguenza In relazione alla individuazione della volontà colpevole alla stessa riconducibile. Il concetto di menomazione può essere mutuato da una classificazione ICIDH (International Classification ol Impairments Disabilities and Handicaps) del 1 980 mondiale della sanità (OMS) che , nel premurarsi di definire le nozioni di menomazione , disabilità e handicap , descriveva le prime come " perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione fisiologica o psicologica o anatomica". La funzione sessuale , per contro , può essere descritta come dimensione della sessualità umana, unitamente alla identità sessuale e alla relazione di coppia. Comprende desiderio, eccitazione (con congestione/lubrificazione, nella donna ed erezione, nell'uomo), orgasmo (con eiaculazione, nell'uomo). La componente fisica di tale funzione può essere determinata specularmente da quelle che , secondo la scienza medica, sono identificate come disfunzioni sessuali femminili che riguardano i disturbi del desiderio, dell'eccitazione, dell'orgasmo e i disturbi sessuali caratterizzati da dolore ( questi ultimi includono la dispareunia, il vaginismo e i disturbi sessuali non coitali). L'interpretazione letterale della norma consente di ancorare all'elemento fisico sia il concetto di menomazione, che quello di funzioni sessuali.” (App. Venezia, 21.02.2013, n.1485).
Tale interpretazione è indirettamente confermata anche dalle osservazioni più sopra compiute sulla parte anatomica interessata - genitali esterni - e sul bene giuridico protetto dalla norme.
SULLO STATUS DI RIFUGIATA RICONOSCIBILE ALLA DONNA CHE TEME DI SUBIRE UNA PRATICA DI MGF.
Chiarite la genesi, la struttura e la funzione della norma introdotta nel nostro ordinamento nel 2006, si analizzi ora un affascinante aspetto connesso alla fattispecie in esame, ovvero lo status di rifugiata riconosciuto in presenza di Mgf.
Preliminarmente si richiami il quadro normativo relativo al particolare status in oggetto: la Convenzione adottata a Ginevra il 28 luglio del 1951, stabilisce le condizioni per essere considerato un rifugiato, le forme di protezione legale, altri tipi di assistenza, i diritti sociali che il rifugiato dovrebbe ricevere
dagli Stati aderenti al documento e gli obblighi di quest'ultimo nei confronti dei governi ospitanti.
La Convenzione, resa esecutiva in Italia con la legge del 24 luglio 1954 n. 722, definisce “rifugiato” colui "che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra" (Articolo 1 A).
A integrazione della Convenzione è intervenuto il Protocollo di New York nel 1967 che ha rimosso le limitazioni temporali e geografiche fissate nel testo originario della Convenzione.
L’ambito di applicazione della Convenzione è limitato ai casi di persecuzione individuale.
Ebbene, la prassi nostrana sta mostrando di ritenere gli atti di mutilazione genitale femminili atti di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale e, se accertato che tali atti siano specificamente riferibili alla persona della richiedente, costituiscono il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 2 e seguenti del D. Lgs. 19.11.2007, n. 251, attuativo della Direttiva 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.
A tali conclusioni sono arrivate alcune corti di merito che hanno trattato in sede giurisdizionale le domande di protezione internazionale di due donne nigeriane precedentemente diniegate dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.
In particolare, il giudice di secondo grado di Catania con sentenza (App. Catania, 27 novembre 2012) dopo aver giudicato il racconto della reclamante attendibile e compatibile con il quadro generale che delle pratiche di Mgf in Nigeria forniscono le principali fonti internazionali (Amnesty International, O.M.S., U.N.H.C.R.) ha definito la Mgf “una forma di violenza, morale e materiale, discriminatoria di genere, legata cioè alla appartenenza al genere femminile”, e, come tale, riconducibile ai motivi di persecuzione rilevanti ai sensi del già citato D. Lgs. n. 251/07.
Continua la Corte nel suo ragionamento: “ Dal momento che le MGF trovano la loro genesi in profonde tradizioni culturali o credenze religiose, il rifiuto di sottoporre sé stessa o le proprie figlie a tali pratiche espone la donna, e le proprie figlie, al rischio concreto di essere considerata nel Paese di origine un oppositore politico ovvero come un soggetto che si pone fuori dai modelli religiosi e dai valori sociali, e quindi essere perseguitata per tale motivo”.
Conclude la Corte che sussistono, pertanto, i presupposti per riconoscere alla reclamante lo status di rifugiato, e ciò affinché ella possa sottrarsi alla violenza di genere e al trattamento discriminatorio che conseguirebbe in caso di rifiuto di sottoporsi alla violenza stessa.
Altro Tribunale, percorrendo una via interpretativa diversa, è giunto alle stesse determinazioni.
Il dato di partenza, in questo caso, è stato la constatazione della gravità di tale forma di violenza, come descritta dall’O.M.S. e dall’U.N.H.C.R., tanto da essere considerata presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale dalla giurisprudenza di vari Paesi, e, in particolare, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (il riferimento è al caso Emily Collins and Ashley Akaziebie v. Sweden, Applicazione n. 23944/05, 8.3.2007, nel quale la Corte ha dichiarato inammissibile la domanda solo perché la persecuzione non era risultata riferibile personalmente alla richiedente).
In primis, il giudicante ha ritenuto possibile interpretare la norma che definisce la qualifica di rifugiato (art. 2, lett. e), D. Lgs. n. 251/07) in senso conforme alla citata sentenza della Corte Europea, in quanto “la rappresentazione della mutilazione genitale femminile quale atto di persecuzione per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale è palesemente compatibile con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta negli articoli 2 e 3 della Costituzione, con particolare riguardo alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo e al principio di uguaglianza e di pari dignità sociale, senza distinzioni di sesso, alla stessa stregua dei motivi di razza, religione, nazionalità o di opinione politica”. (Trib. Cagliari, 03 aprile 2013).
In secundis, il Tribunale è passato alla verifica della riferibilità degli atti di Mgf alla persona della richiedente alla stregua dei criteri delineati dal D. Lgs. n. 251/07 ed interpretati dalla Corte di Cassazione; l'esito positivo di tale verifica lo ha portato a concludere per il riconoscimento a favore della ricorrente della più ampia e tutelante tra le forme di protezione internazionale.
Sebbene le pronunce in commento rappresentino senza dubbio un passo in avanti nella valutazione del fenomeno delle Mgf sotto il profilo della tutela da accordare alle vittime o alle potenziali vittime di tali pratiche, la dottrina avverte di non cadere nell'errore di considerare scontato tale risultato.
Infatti, solo tre anni prima, nel dicembre 2009, altro Tribunale dello Stato (Trib. Trieste, 11dicembre 2009, n. 540) aveva negato ad una donna camerunense il riconoscimento dello status di rifugiato perché “dal racconto dei fatti non era dato desumere un vero e proprio rischio di persecuzione, né appariva ravvisabile una violazione grave dei diritti umani fondamentali della richiedente; le pur pesanti e sanguinose pratiche tribali, quali il matrimonio forzato e l'escissione dei genitali cui la donna era sfuggita, concludeva il Tribunale, non potevano integrare quegli atti o fatti tali da configurare persecuzione in senso tecnico, bensì solo giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria in quanto integranti una lesione, o una minaccia di lesione, di beni fondamentali quali la libertà di matrimonio e l'integrità fisica e sessuale”.
CONCLUSIONI
Il tema in questione presenta punti di osservazione diversi: quello antropologico, necessario per capire e studiare la genesi e la ragione di tali pratiche; quello legislativo, necessario per articolare strategie di contrasto e di prevenzione del fenomeno; ed infine, quello umanitario, che privilegia l’aspetto della tutela dei diritti delle vittime, agendo sul piano educativo e sanitario.
Dato che gli spiragli di apertura verso il sicuro riconoscimento dei presupposti richiesti dalla Convenzione di Ginevra (come quelli indicati dalla corti di merito succitate), non sono stati ad oggi avvallati dalle Alte Corti nazionali, si potrà evidentemente adire la via giurisdizionale per richiedere il riconoscimento della posizione di rifugiata, prevedendo un buon esito della controversia. Resta, ovviamente, sempre aperta la strada della Corte europea dei diritti dell'uomo.