Non dar retta a Freud
Un terzo della nostra giornata lo passiamo al lavoro, per chi un lavoro ce l’ha ovviamente, gli studenti fanno altrettanto all’interno del sistema scolastico ma quello che noi definiamo ambiente di lavoro è per loro un ambiente di apprendimento, un luogo dove acquisiscono non solo un corredo di competenze ma un diritto di cittadinanza all’interno di una polis. Esercitare questo diritto è molto più complicato che sostenere un esame. La ragione va ricercata nella distanza che è manifesta tra quello che apprendiamo, spesso nozionistico, e il sistema dei valori che si consolida attraverso il vissuto. Il mondo del lavoro replica abbastanza fedelmente quel tipo di modello. Uso il termine abbastanza perché c’è una cosa in particolare che li distingue e va ricercata nel meccanismo di ricompensa. Nel mondo del lavoro lo si traduce in corrispettivo rispetto a una prestazione resa. Nel sistema sociale questo meccanismo è assente. Nessuna ricompensa è prevista se fai il tuo dovere di cittadino, nessun sistema premiante ti spinge a produrre di più per cui l’esigenza di acquisire nuove competenze rimane confinata alla tua sfera individuale, la collettività non ne beneficerà a meno che quella competenza non si traduce in un valore economico che risponde a logiche di mercato sul meccanismo consolidato della domanda e dell’offerta. In azienda la competenza scandisce l’intero ciclo di vita di ogni collaboratore. La si cerca ancor prima di entrare in azienda, la si consolida in un meccanismo di stratificazione, la si manutiene come fanno i panificatori con il lievito madre e a volte la si abbandona non tanto per trascuratezza quanto per la scoperta che di quella competenza acquisita non sappiamo che farcene perché nel frattempo è su un’altra che dobbiamo puntare. Snervante è probabilmente sminuire un concetto perché quello che accade nel concreto è un continuo stop and go, fermarsi e ripartire. Faticoso perché non tutti ne sono capaci. Qualcuno necessita di più tempo, altri rifiutano a priori l’idea di cambiare, altri semplicemente si smarriscono. Se fossimo macchine sarebbe tutto più semplice, basterebbe riprogrammarci, modificare l’algoritmo, sostituire un chip. E invece ci scopriamo vulnerabili ed è proprio in momenti come questi che per un naturale meccanismo di difesa iniziamo a porci delle domande che potremmo definire esistenziali o semplicemente di senso. Accanto alla più comune che potremmo tradurre con l’espressione “Che ci faccio qui?” ce n’è una che ci riguarda in prima persona e che ci spinge ad interrogarci nel profondo: “Chi sono io veramente?” Ed è interessante cercare di scoprirlo perché è inevitabile guardarsi indietro per scoprire se la persona che oggi vedo riflessa allo specchio è la stessa che frequentava i banchi di scuola, che si affacciava al mondo del lavoro con un carico di grandi speranze e si accendeva come una lampadina quando apprendeva qualcosa di nuovo. Ci scopriamo cambiati, più spesso sconfitti ma non da qualcuno in particolare ma da un sistema che si regge su questi meccanismi. Le aziende ci cambiano, al pari della società, ma non c’è nulla di manipolativo, è la realtà dei fatti, nessuno resta sé stesso, nemmeno quelli che sventolano il gagliardetto della coerenza. C’è però una sorta di upgrade di senso e si concretizza in una domanda ancora più profonda vale a dire “Come sono io veramente?” Qui ci siamo lasciati alle spalle l’ambiguità che ci porta a interrogarci su chi siamo, l’abbiamo capito, siamo diventati altro, non dico meglio o peggio ma qualcosa che ha a che fare con il concetto di evoluzione o involuzione, dipende dai punti di vista. Ora ci preme comprendere il meccanismo che regola le nostre azioni. Questo aspetto, tra l’altro, dovrebbe interessare molto anche alle organizzazioni perché sapere come sei fatto, come funzioni, se sei stato assemblato seguendo pedissequamente le istruzioni fornite qualifica in positivo il tuo rapporto con l’Azienda, lo eleva perché permette, attraverso la conoscenza profonda, di poterti utilizzare in un’ottica win-win. Ci poniamo questa domanda, a mio avviso legittima, perché c’è un tema di percezione che spesso è fuorviante ovvero gli altri ci vedono spesso in un modo diametralmente opposto a quello che cerchiamo di esprimere nei nostri comportamenti. La funzione HR ha in questa fase un ruolo non banale perché aiuta a districare questi dubbi e accompagna la persona a comprendere meglio il suo ruolo all’interno di contesti organizzati estremamente mutevoli. Una cosa è certa e cioè se prima i modelli organizzativi e sociali erano molto ben distinti e distanti ora le organizzazioni devo fare i conti con una stratificazione anagrafica che riflette sempre di più la società. Genitori e figli, nonni e nipoti e via discorrendo. Le politiche di welfare devono quindi tener conto di questo cambiamento e immaginare che esistono bisogni nuovi da soddisfare se vogliamo parlare davvero di benessere organizzativo. E poi l’ultima domanda che in realtà non è una domanda ma un’affermazione perentoria che ha il sapore di una sentenza e inizia con “Perché sei…”. Facile affibbiare etichette, è forse la strada più praticata e con quell’etichetta passi il resto dei tuoi giorni fino al punto di accettarla e non vederla più. Ma c’è un momento in cui tu prendi consapevolezza della tua vera essenza e lo accetti. Ci hai messo una vita eppure ci sei arrivato e la notizia è che ci sei arrivato da solo. Freud sarebbe in disaccordo, avrebbe trovato in questo tuo interrogarsi qualcosa di patologico ma tu fregatene perché non ti sei mai sentito meglio in vita tua come adesso.
g.