Nuova geografia del disgelo
Già pubblicato su Le Montagne incantate – National Geographic n. 12
Luglio 2019. Scende la sera alla Capanna Marco e Rosa, il rifugio a nido d’aquila che accoglie le cordate dirette al Bernina, il 4000 più orientale delle Alpi.
Il rifugio è il crocevia degli alpinisti provenienti dal Sud, dal versante italiano e quelli giunti dall’opposto lato svizzero. Nel piccolo spazio antistante l’ingresso si incrociano sguardi felici, a volte stanchi per chi rientra dall’ascesa o carichi d’aspettative e di tensione per chi attende di rimettersi in cammino per la vetta.
La luce radente al tramonto evidenzia ogni dettaglio Qui il suono della montagna si trasforma in un frastuono, non c’è nulla di silenzioso, mai un momento di quiete, ma noi facciamo fatica a percepirlo.
Perché il silenzio che noi intendiamo è l’assenza di quello cui le orecchie sono abituate, silenzio dalle auto, dalle voci umane. È difficile ascoltare la natura.
In realtà la montagna è un suono di mille voci, in ogni ora del giorno e della notte fa rumore. Acque, frane, ghiaccio producono incessantemente un canto costante.
La voce più forte della montagna è proprio quella del ghiaccio, attraverso il distacco di un seracco, o semplicemente con l’incessante fluire del ghiacciaio.
Fuori dal nostro aereo rifugio si ascolta la montagna che crolla, si scrolla e muta pelle.
Le rocce dioritiche si estendono nella parte più alta della cresta; cinquecento metri più in basso il ghiacciaio che soffre è illuminato dagli ultimi raggi di sole.
Pietre e sfasciumi ricoprono ampie porzioni del ghiacciao di Scerscen superiore, sono resti di antiche frane, lentamente trasportate sino al centro del plateu glaciale.
A pochi metri dalla capanna il ripido Canale di Cresta Guzza mostra estese finestre di roccia che interrompono la persistenza del ghiaccio, ormai ridotto a chiazze grigiastre, in parte ricoperto da detriti e solcato da profonde rigole di ruscellamento.
Inseguo con lo sguardo le grandi bocche aperte delle crepe terminali ormai invalicabili e i grandi crepacci trasversali che sconvolgono la superficie della vedretta. Sono ferite che raccontano un vero e proprio scollamento dei ghiacci connesso con l’accelerazione dei processi di fusione in atto.
Sono parecchi giorni che anche a questa quota il termometro non scende sotto lo zero, di conseguenza pietre e rocce rotte, non più immobilizzate dal gelo, precipitano incessantemente. Ad intervalli regolari dai colatoi si alzano piccole nuvole di povere, seguite dopo qualche istante dal tonfo sordo delle scariche
Impensabile avvicinarsi a tutte le celebri pareti Nord delle Alpi con queste condizioni. Unica possibilità è quella di muoversi d’inverno o nelle stagioni di mezzo, curando ed inseguendo le migliori condizioni del momento.
La partenza all’alba dal rifugio è insolitamente mite, nessuna traccia di verglas sulle rocce, il sottile strato di ghiaccio trasparente e sdrucciolevole che di solito si forma nelle ore notturne. Un velo d’acqua percola della poca neve residua che ancora da forma all’aereo tratto di cresta nevosa che si raccorda con la cima.
Poco sotto l’anticima, mentre assicuro il mio compagno, osservo la grande zona grigia del ghiacciao del Morteratsch, dove avviene la riduzione della massa glaciale per fusione, che si estende sempre di più a discapito della superficie bianca dove la neve dell’inverno permane ed alimenta l’intero apparato.
Anche la parte terminale, la “lingua”, è solcata da canali e inghiottitoi che, nelle ore più calde, gorgogliano d’acqua; alla fronte, un lago proglaciale effimero è in fase di formazione.
Tutte le grandi salite del massiccio sono profondamente cambiate. A partire dalla Crast’Alva, la salita al Bernina da Nord, gli speroni settentrionali del Piz. Palù, l’estetica cresta Eselsgrat al Piz. Roseg e la solare Cresta della Spraunza al Piz. Morteratsch.
Ogni estate le guide elvetiche diramano comunicati rivolti agli alpinisti che segnalano varianti per evitare zone pericolose, interessate frane e dissesti, oppure interventi di “manutenzione” con la posa di nuovi ancoraggi nelle sezioni di parete divenute più impegnative.
Se da un lato questi interventi sono rivolti a migliorare la percorribilità lungo le salite più gettonate, da un altro punto di vista creano una discutibile artificializzazione dei percorsi, che si discosta dall’essenza stessa dell’alpinismo, che vede l’uomo adattarsi alla montagna e non viceversa.
Un altro elemento di instabilità diffusa, meno visibile, ma che contribuisce in modo determinante ai processi di cambiamento in atto è la fusione del permafrost, ovvero di quella porzione di ghiaccio nascosto alla vista che intasa le fratture all’interno della roccia o riempie gli interstizi tra i detriti. L’acqua che ne scaturisce è sempre un elemento destabilizzante che va ad interessare anche le montagne non ricoperte di neve e ghiaccio.
I crolli sempre più frequenti registrati negli ultimi anni, dal Dru nel Gruppo del Monte Bianco, al Cengalo nelle Retiche, alla Piccola Croda Rossa nelle Dolomiti sono certamente da collegare ad un incremento anomalo della massa liquida.
Tutti noi abbiamo ancora negli occhi le spaventose immagini della grande frana di crollo che si staccò la mattina del 23 agosto 2017 dal Pizzo Cengalo nella sottostante Val Bondasca, nel cantone Grigioni, la più grande della Svizzera dopo quella di Elm, nel cantone di Glarona del 1881. In pochi secondi crollarono 3,1 milioni di metri cubi di granito, sollevando un’enorme nuvola di polvere. La frana liberò un’inaspettata enorme quantità d’acqua dalle viscere della montagna che andò ad alimentare una colata distruttiva di fango e detriti sino ad invadere il villaggio di Bondo diversi chilometri più a valle.
Da ragazzo ho sempre immaginato le grandi distese bianche attorno ai giganti delle Retiche come qualcosa di perenne ed inestinguibile, ma con il trascorrere delle stagioni ho osservato con i miei occhi l’inarrestabile decadimento delle porzioni di neve e ghiaccio poste alle quote più basse o maggiormente esposte al sole.
Non si tratta solo di una drastica riduzione dei ghiacci, ma di un vero e proprio sconvolgimento delle certezze geografiche, di una mutazione irreversibile del paesaggio e dei riferimenti che, da generazioni, gli abitanti delle Alpi portavano con sé.
Tutto questo si accorda con la temperatura in crescita inconfutabile dal 1800, con un netto incremento negli ultimi quaranta anni. Sappiamo che dal 1960 i ghiacciai delle Alpi italiane hanno perso una superficie pari all’estensione del Lago di Como.
Le descrizioni delle vie alpinistiche di neve e ghiaccio, contenute nelle gloriose guide del Club Alpino Italiano – Touring Club, sono ormai inutilizzabili. Possono costituire un riferimento generale, ma ogni relazione puntuale riguardo ai tempi di avvicinamento, difficoltà e rotta da seguire va completamente reinterpretata.
Dedali di crepi spesso costringono ad allungare i percorsi e i tempi di percorrenza, la neve di primavera lascia sempre più rapidamente spazio al ghiaccio affiorante, costringendo l’alpinista a un faticoso cammino sulla superficie irregolare, spesso ricoperta dai blocchi e detriti che amplificano difficoltà e fatica.
La scomparsa del ghiaccio accresce le dimensioni delle morene, spesso franose e instabili e favorisce l’emersione di ampie sezioni di roccia liscia e inscalabile. Quel che era semplice può trasformarsi in un grande ostacolo.
Stessa sorte hanno subito le numerose linee “bianche” che correvano lungo versanti e crinali di tanti Quattromila, oggi estinte e trasformate in veri e propri muri e creste di roccia non sempre solida. Tutto quello che era catalogato come “facile ascensione su ghiacciaio” va completamente riaggiornato e rivalutato alla luce dei mutamenti in atto.
I cambiamenti impongono nuove necessità d’adattamento: per muoversi in alta montagna occorre sempre di più interpretare le condizioni di variabilità ed incertezza.
Eppure il nostro approccio alla montagna rimane sostanzialmente invariato. Le vacanze d’agosto e i weekend liberi segnano l’agenda: si va.
Continuiamo a cercare il contatto con la natura in montagna perché ci procura piacere, dimenticandoci a volte che il piacere che ne deriva sta nel cercare quanto nel trovare.
Fatichiamo a distaccarci dal concetto di "trofeo" da conquistare, anche quando le cose si fanno complicate. È una questione di sguardi, di consapevolezza che la situazione in alta montagna si è fatta assai complessa.
Come guida e come montanaro mi domando se sia arrivato il tempo di reimparare ad ascoltarsi, a scrutare meglio il terreno durante la salita per ritrovare un’intelligente cautela. Occorre adattarsi, dotarsi di grandi antenne, interpretare anche i più piccoli segnali che la natura ci va mostrando.
Accedere a sé stessi, alla propria motivazione e concezione, prima ancora che alle tecniche, ai materiali, all’abilità motoria e alle tabelle di allenamento, può permettere di riconoscere quale percorso è più adatto ed idoneo a noi.
Diversamente, possiamo restare preda delle mode e di idee non nostre. Solo accettando l’incertezza, l’errore (attivando compensazioni di successo) e il dubbio, è possibile osservare più in profondità, cogliere le sfumature e i dettagli.
In breve prepararsi ad essere impreparati, senza smettere di salire, perché in alto troviamo gli ultimi luoghi di libertà rimasti, dove è ancora possibile un contatto diretto, concreto e sensibile con gli elementi naturali.
Qui possiamo vivere nel senso pieno del termine, confrontarci con i nostri limiti e imparare qualcosa.
Sono gli ultimi spazi preziosi, privi di divieti, regole, recinti e costrizioni, dove possiamo e dobbiamo affidarci solo a noi stessi e all’auto-protezione. Forse così potremmo semplicemente meglio concentrarci sulle situazioni di vulnerabilità e imperfezione che incrociamo costantemente.
Senza dimenticare che questa montagna che cambia pelle, e si trasforma sempre di più in modo imprevedibile, può costituire un valido alleato nei processi educativi, dove la percezione dei rischi e la consapevolezza di sé stessi, consentono di assaporare l’esperienza, senza consumarla.
Safety Training
3 anniPlease Michele, could you translate it in English? The message is so full of meaning that it is a shame to limit it to the Italian language. Thanks.
Psychologist, Licensed Psychotherapist - Passionate mountain wall climber, coder and Linux user
3 anniRicordo i suoni emessi di notte dalla Mere de Glace, dal rifugio si sentiva la vita del ghiacciaio, un organismo che si muoveva e respirava.