Oscar, quarant’anni dopo
Quando esce un libro dedicato a Lady Oscar normalmente lo compro a scatola chiusa. È sempre un’occasione per rivivere impressioni, emozioni e considerazioni nate ormai più di quarant’anni fa, quando in Italia apparve per la prima volta l’anime trasmesso da Italia 1.
Il libro di Silvia Stucchi trasuda passione per il personaggio e per la saga (anime e manga) ma la sua rilettura, eseguita “con gli occhi del cuore”, non sovrasta l’obiettivo dichiarato di un volume che “punti a sviluppare e approfondire anche particolari poco noti, ma non per questo marginali, della storia” (pag. 14).
Il libro non è solo ben scritto e avvincente da leggere; mantiene le promesse, il che non è mai scontato. Ho letto diversi libri dedicati a Lady Oscar, ma apprendo solo ora alcuni particolari che non conoscevo e altri sui quali l’autrice mi ha portato a riflettere in modo approfondito.
Non volendo rovinare al lettore il piacere della scoperta, mi limito a segnalare alcuni elementi: le differenze tra la versione originale e i dialoghi nell’adattamento italiano; differenze poco note tra anime e manga; il fatto che le tombe di cui si prende cura Alain non fossero quelle di Oscar e André; le cinque rose (le cinque donne protagoniste) e i colori delle tre uniformi indossate da Oscar; quel “Lady” col quale nessuno qualifica Oscar se non nella sigla; alcune riflessioni sulla gestualità, sulla prossemica dei personaggi principali, sul loro rapporto, sul loro gioco di sguardi, sui loro silenzi, sul non detto e molto altro ancora.
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Mi ha fatto particolarmente piacere che l’autrice abbia dedicato alcune pagine per ribadire un punto che, personalmente, non ho mai ritenuto che fosse in discussione: Oscar è una donna ed è sempre stata consapevole della sua identità femminile nonché del fatto che l’educazione ricevuta le avesse concesso “una libertà di azione e la possibilità di accedere a compiti e responsabilità all’epoca preclusi alle donne” (pagg. 54-56). Coloro che, in questa nostra epoca delirante, hanno ascritto Oscar alla voce gender fluid non hanno capito il personaggio, o peggio, non hanno voluto capirlo.
C’è un solo punto della disamina dell’autrice sul quale non concordo: anch’io ho visto Lady Oscar sin dal suo primo passaggio televisivo, ma per me la prima sigla dell’anime non è mai stata “la sigla per eccellenza” (cfr. pag. 14). Ricordo ancora che – dopo avere visto la prima puntata dell’anime – mi chiesi cosa c’entrassero tra loro il tono della vicenda e le immagini della sigla (in particolare quelle in cui Oscar è circondata dalle spine) con “tutti fanno festa quando passi tu” e il resto del ritornello, per non parlare della musica.
A me è rimasta nel cuore la sigla successiva, ma solo nella versione cantata da Enzo Draghi; è vero che il rimontaggio delle immagini fa sembrare Lady Oscar “come una storia di cappa e spada” (pag. 48), ma la musica non è trionfante, direi anzi malinconica, così come parte del testo; una frase come “nell’azzurro dei tuoi occhi c’è l’arcobaleno” avrebbe potuto benissimo pronunciarla André, per questo trovo geniale che sia stato un uomo a cantare la sigla. La ritengo comunque molto più appropriata rispetto alla colonna sonora originale ossia alle struggenti musiche del maestro Kōji Makaino, fra le quali svetta, a mio parere, il brano intitolato “Un affettuoso regalo”.
Ultima riflessione personale, sempre in ambito sonoro: quando penso a Oscar e André risuonano, inconfondibili, le voci di Cinzia De Carolis e Massimo Rossi, ma insieme arriva anche quella, indimenticabile, del padre di Oscar doppiato da Romano Malaspina, il “mio” Actarus, in una strana contaminazione tra le Rose di Versailles e il Principe del pianeta Fleed, pilota di Goldrake.