Perché dovremmo smetterla di esaltare l'eccellenza universitaria
È proprio una grande idea quella di alcuni giornali di continuare a scrivere fiumi di parole di elogio elevando a baby fenomeni ragazzi che si laureano in 1 anno a tempi record o che prendono 37 titoli accademici in una settimana.
Credo che non siano notizie innocue ma contribuiscono a costruire un dibattito tossico.
L'università, in primo luogo, viene vista come il tempio della competizione. Dopo anni passati a scuola vivendo la valutazione spesso quantitativa, apponendo numeri e con ben poco di qualitativo, la dinamica si ripropone negli studi universitari. Ci insegnano che si viene valutati just in time, che conta sapere rispondere sul momento senza accertarsi della comprensione di un concetto. Sapendo questo l'obiettivo diventa rendere, conta la performance, le cose poi le puoi dimenticare in qualche giorno.
Al secondo anno di triennale, vedendo questo show ad ogni esame ho smesso di ripassare fino al minuto prima della prova. Al secondo anno grazie ad un grande amico, ho incominciato a fare teatro, ho destrutturato tutte queste costruzioni tossiche. Ho iniziato a respirare prima di un esame, focalizzarmi solo sul respiro. Erano anche anni in cui all'orario dell'aperitivo frequentavo un tempio buddhista. L'aperitivo lo facevo lo stesso ma dopo, dettagli! Non ero né un fenomeno né un illuminato ma vedevo finalmente quanto male faceva quel sistema lì.
Attacchi di panico, pianti e senso di colpa erano e sono ancora gli elementi più comuni all'università, quando si fallisce un esame. È malsano, è contorto pensare che si debba stare male invece che fare autocritica e accettare la "sconfitta". Questo perché ci viene insegnato che dobbiamo rendere, eccellere e che in un contesto socio-culturale come questo i ritmi sono veloci e noi dobbiamo esserlo altrettanto. Bisogna correre per macinare esami, correre per finire in tempo. La percezione che si crea è che chi arriva per primo sia il più talentuoso, il migliore. Spesso però ha avuto la condizione di partenza ideale, me per primo, con una famiglia che ti sostiene economicamente e che non ha problemi gravi al suo interno.
Capita che tra i primi, tra i migliori in gara ci siano anche ragazzi che non partivano dalle condizioni ideali e che hanno capito di dover faticare e sputare sangue per stare al passo o fare anche meglio. Questo tra ansie inutili, tra confronti impari che, se non retti, vogliono dire emarginazione sociale.
Spiegalo ad un colloquio di lavoro, giustifica senza vergogna i buchi nel CV. Spiega che hai lavorato e studiato assieme per pagarti l'affitto; spiega che hai sofferto di attacchi di panico ogni volta che venivi valutato; spiega che hai perso un genitore e non sei riuscito ad aprire un libro per mesi.
Consigliati da LinkedIn
Spiega anzi giustifica - come se si dovesse - un CV che è la tua storia che racconta che non hai potuto studiare perché non ne avevi la possibilità; che hai preso il diploma dopo; o che hai preso una laurea a 50 anni quando hai finalmente creduto in te stesso mentre nessuno l'aveva fatto fino a quel momento.
La vera dignità non l'ho trovata in chi ha fatto il percorso naturale, perfetto con CV immacolato. Ho conosciuto persone che non hanno studiato e che hanno una sensibilità e un'intelligenza uniche; ho conosciuto persone che hanno fatto i lavori più umili per pagarsi gli studi e per darsi delle possibilità.
Mentre nel contesto universitario molte persone mi hanno deluso. Persone che anni fa non avrebbero concluso un percorso accademico mentre nel 2022 in qualche modo tutti se la cavano. Infatti credo che la percentuale di laureati in Italia, spiattellata in report e articoli, non sia indicativa del livello culturale e del capitale umano in generale del paese. Siamo gravemente impreparati, non sappiamo più scrivere, non sappiamo leggere un testo criticamente. La percentuale di giovani low skilled in literacy è del 9,6% per quelli tra i 16-24 anni e del 14,8% per quelli tra 25-34 anni (dati OCSE-PIAAC).
Mi hanno deluso, dunque, persone che non vedevano l'ora che finissero le lezioni quando le avevano scelte e pagavano per assistervi. Anche solo mezz'ora in più era conoscenza a disposizione. Mi hanno deluso persone che sono sopravvissute a lezioni ed esami in attesa del voto fino ad ottenere il pezzo di carta alla fine del percorso. Lo stesso da esibire nei post Instagram ringraziando se stessi per non aver mai mollato.
Nuove frontiere della masturbazione.
Per concludere, mi ha deluso il modo di vivere l'università, non più un luogo di cultura e di sviluppo di competenze. È diventata indifferente, il peggiore dei mali secondo Dostoevskij, perché non sa interrompere la corsa per il pezzo di carta. Non è educativa - da educere, cioè non "tira fuori". Offre e basta, come un negozio, come l'esamificio che è, coperto da una facciata di apparente meritocrazia, di orientamento all'eccellenza dove esibire i "record" delle foto che trovate in intestazione.
Non ho paura a dire che i miei titoli accademici non hanno un gran valore. Lo hanno, invece, i percorsi che ho fatto, le persone che ho conosciuto, quello che ho imparato. Perché all'università non ho preso la mia rivincita sul liceo. Al tempo, al liceo, non mi piaceva studiare e nemmeno adesso. A me piace apprendere. Credo che sia la sconfitta più grande di questo sistema far credere a una gran quantità di persone di essere a loro volta degli sconfitti quando l'unica vittoria dovrebbe rispondere al nome di apprendimento.