Great resignation: 56 su cento pentiti di aver cambiato lavoro

Great resignation: 56 su cento pentiti di aver cambiato lavoro

Pentiti. Un anno dopo aver dato le dimissioni dal posto di lavoro che non piaceva più. E sono la maggioranza: 56 su cento. Ecco l’altra faccia del “Great resignation”, il fenomeno delle grandi dimissioni che sull’onda di quel che accadeva negli Stati Uniti ha preso sempre più consistenza anche in Italia. Ma ora un’indagine dell’Osservatorio Hr innovation practice del Politecnico di Milano, condotta insieme con la Doxa, disegna uno scenario del tutto differente da quello che si poteva immaginare. Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio, l’ha raccontata così ai microfoni di “Uno, nessuno centoMilan”, trasmissione di Radio24: «Se in passato il lavoro era il centro delle aspirazioni e dei sogni per crescere anche nello status sociale, negli ultimi anni è stato coinvolto in una autentica rivoluzione dove la ricerca del vivere bene è una risposta alle incertezze emergenti. La fragilità del futuro sembra spingere soprattutto le persone a stare bene qui e ora. Nell’impiego si cerca un benessere economico e mentale, in cui la flessibilità dei tempi è fondamentale».

Il "Great regret"

Così ci si dimette alla ricerca di un posto migliore. Ma dopo dodici mesi si fa strada il “Great regret”, il grande rimpianto. Ed è un trend in crescita, che diventa maggioranza. Nel 2023 gli insoddisfatti dopo il cambio di lavoro superavano di un soffio il 40% (41 per la precisione): due su cinque. Nel 2024 sono saliti al 56%. Più di uno su due. Una delle principali fonti di malessere resta l’incapacità di gestire la vita lavorativa con quella privata. Così alla fine quelli che si riconoscono nella massima confuciana («scegli un lavoro che ami, e non lavorerai neppure un giorno nella tua vita») sono davvero una nicchia: il 5 per cento. Gente felice, soddisfatta e orgogliosa del lavoro che fa. Anche motivata. Accanto, il deserto. Sempre secondo l’indagine un lavoratore su tre si è assentato dal lavoro almeno una volta nell’ultimo anno per motivi di stress o ansia. Infelicità e malessere sono le due spie che spingono molti a cambiare mestiere o posto: il 42% degli italiani lo ha fatto di recente o ha intenzione di farlo a breve e per la prima volta il motivo principale è «la ricerca di benessere fisico e mentale». Lo indica il 36 per cento del campione sondato. Cresce, ma con percentuali meno rilevanti, anche la ricerca di opportunità di carriera e di un posto certo nel medio lungo periodo.

I demotivati e i job creeper

E chi è insoddisfatto ma non può o non riesce a cambiare lavoro che fa? Il minimo indispensabile. I ricercatori li hanno identificati come «quite quitter» e dicono che sono il 12% dei lavoratori. Sempre la stessa percentuale a distanza di dodici mesi. «C'è chi ci scherza su – ammonisce Corso – ma è una patologia. Si mettono in difesa dal disagio. Hanno un distacco emotivo rispetto al lavoro. Fanno il minimo indispensabile senza motivazioni, solo per evitare di correre il rischio di un licenziamento».

All’opposto ci sono i “job creeper”: per loro il lavoro è tutto. Non riescono a smettere di lavorare neanche quando sono fuori dall’ufficio o dallo stabilimento: compresi i momenti che dovrebbero dedicare alla vita privata. «Gente che ha sposato il lavoro»: c’è chi li riassume con una battuta, ma sono in crescita. Anzi, in un anno sono raddoppiati sia pure sempre nel perimetro di una nicchia: dal 6% al 13%.

Le aziende che si rifanno ai criteri Esg hanno dipendenti più felici


Dove cresce la felicità

Soluzioni? «E’ necessario ripartire dalle basi per costruire un nuovo approccio al lavoro orientato alla felicità, che preveda insieme giusto riconoscimento, flessibilità, work-life balance, inclusione, valorizzazione, employability, cioè la capacità di essere occupati o di saper cercare, trovare mantenere un lavoro» riassume Corso. C’è chi ha già messo in pratica questo nuovo modello. Con successo. Sono le aziende che si ispirano ai criteri Esg. Una scelta che colpisce positivamente soprattutto le nuove generazioni perché impegnarsi nella sostenibilità ambientale e sociale dà un senso a quello che si fa. E così i felici sul lavoro si quintuplicano, crescendo fino al 24 per cento. 

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