Perché non sfuggiamo agli stereotipi?
Immagine tratta dal film "La vita è bella"

Perché non sfuggiamo agli stereotipi?


Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è ritrovato a pronunciare queste parole: «Non ho niente contro di loro ma...». Qual è la prima cosa che guardate in una persona appena incontrata? Cosa cercate di capire la prima volta che conoscete qualcuno? Probabilmente non avete una risposta dettagliata a questa domanda, ma sapete che l’intenzione è «inquadrarla», insomma comprendere velocemente che «tipo» o «tipa» sia. La cosa che in realtà fate è imbastire un’idea sommaria per capire come impostare la relazione, di qualsiasi relazione si parli. Sia che stiate conoscendo un collega nuovo, sia che stiate ordinando la cena al ristorante, quello che farete è cercare di capire chi avete davanti.

Ci costruiamo un giudizio in pochissimi istanti.

Lo facciamo applicando varie scorciatoie, che servono a darci una prima impressione. Ed entreranno in gioco una serie di bias cognitivi, ad esempio l’Effetto alone (Halo Effect), che consiste nel generalizzare una sola caratteristica o qualità di una persona, ed estenderne il giudizio a tutto ciò che la riguarda. In positivo, se la bellezza fisica di una persona influenza la percezione di altre qualità come l’intelligenza o la professionalità. O il contrario.

E quello che poi continueremo a fare, per il resto del tempo, è cercare elementi a conferma della nostra tesi – alla nostra mente piace un sacco darsi ragione, e farlo con se stessi è assai semplice. Questo è uno dei nostri bias più frequenti, si chiama appunto Bias di conferma.

In parole povere, la prima domanda che il nostro sistema istintivo, il nostro Homer Simpson interiore, si pone di fronte a una persona nuova è: mi piace? Con «piacere» non intendo solo mi sta simpatica, o antipatica... ma avrà buone o cattive intenzioni? E, in seconda battuta: potrebbe realizzarle? Ecco, tutto questo lo elaboriamo come un automatismo, e per rispondere velocemente a queste domande, usiamo stereotipi e pregiudizi sociali.

Come succede? Il modello più efficace per spiegare come ciò accade è stato elaborato per la prima volta nel 2002 dalla psicologa sociale Susan Fiske e dai suoi colleghi Amy Cuddy, Peter Glick e Jun Xu. Si chiama Modello del Contenuto degli Stereotipi (in inglese #StereotypeContentModel, SCM), e a oggi è il più autorevole. Misura le nostre percezioni relative alle altre persone sulla base di due variabili: il «calore» e la «competenza» che ci trasmettono. Il primo definisce quanto una persona ci «piaccia», quanta «vicinanza» empatica ci trasmetta; la seconda quanto sia in grado di attuare realmente i suoi propositi, ossia quali siano le sue capacità.

Naturalmente è più facile capire questo meccanismo con un esempio: vi trovate a rientrare la sera tardi e in strada vi si avvicina una persona sconosciuta, la vostra mente la squadra e si chiede: è una potenziale minaccia? Probabilmente se è una ragazza giovane, una persona anziana, una donna incinta, ecc. la percezione di «calore» che vi trasmetterà sarà maggiore che se fosse un ragazzotto muscoloso e tutto tatuato. Inoltre la capacità di farvi male, e quindi la vostra valutazione della sua «competenza» guardandogli i muscoli – nel caso del superpalestrato – non farebbe che confermare un livello di allerta alto. Poi, il fatto che lui magari sia un giovane e altruista volontario della Croce Rossa non ci è dato saperlo sul momento, quindi ci affidiamo al nostro istinto, e affrettiamo il passo, magari impugnando il telefono.

Dicevo però che questo è un esempio facile. La valutazione non la facciamo solo in situazioni di possibile pericolo, ma in qualsiasi situazione di «primo incontro». Se andiamo dal medico per la prima volta, inconsapevolmente «squadreremo» subito il suo «calore», in termini di empatia e ascolto, e la «competenza» che ci trasmette. Ci sono delle «lenti» importanti che possono influire su questa valutazione. Diciamo che quel medico che abbiamo incontrato per la prima volta deve fare un delicatissimo intervento ai testicoli di vostro marito, o di vostro figlio, insomma a qualcuno che ha dei testicoli per voi decisamente importanti. La percezione di calore e competenza incontrandolo cambierebbe se vi trovaste davanti un medico settantenne o trentenne? E se fosse una donna? Be’, e perché avevate dato per scontato che fosse un uomo?

Perché un’altra cosa che facciamo è categorizzare istintivamente le persone ricorrendo agli stereotipi (ennesimo bias, in inglese stereotyping). In pratica per valutare qualcuno tendiamo a metterlo in un «insieme» sociale, un "cassetto" nella mente. Colleghiamo quella persona a un gruppo, che per noi è facile delineare con caratteristiche omogenee, e tariamo la nostra valutazione in base a quella appartenenza. Valutiamo infatti anche gruppi sociali, giovani, anziani, donne, uomini, stranieri, casalinghe, uomini d’affari – e chi più ne ha più ne metta – in base al sistema calore/ competenza, creando in pratica degli stereotipi.

Guardate il grafico:

Questa immagine rappresenta il modello del contenuto degli stereotipi tratto dal libro di Francesca Vecchioni Pregiudizi inconsapevoli.  In pratica è un asse cartesiano che divide quattro quadranti: paternalismo, ammirazione, disprezzo, invidia; seguendo le due caratteristiche dei gruppi sociali divisi per calore e competenza. All'interno ci sono degli esempi già citati nel testo.

Nel quadrante tutto positivo ci sono i gruppi che ammiriamo, perché composti da persone con status elevato, percepite socialmente come gruppi dominanti sia per calore che competenza. Verso questi gruppi tendiamo a sviluppare pregiudizi positivi e spesso, se non riteniamo di farne parte, nei loro confronti ci poniamo istintivamente in una posizione di ammirazione.

Nel quadrante in basso a sinistra, tutto negativo, si ritrovano i gruppi che generano sentimenti sociali più netti e negativi. Sono quelli verso i quali socialmente si sviluppa meno vicinanza e stima, con pregiudizi di disprezzo e a volte disgusto, ad esempio molti gruppi etnici, rom in particolare, gay, lesbiche, trans, ecc. Immaginate luoghi comuni come «i trans si prostituiscono», «gli zingari rapiscono i bambini», «i neri puzzano», «gli slavi sono violenti», «i sudamericani sono ubriaconi».

I più difficili da riconoscere: i pregiudizi ambivalenti, i più subdoli

Nei due quadranti ambivalenti invece sono inseriti i gruppi sociali che per un verso, o per l’altro, mancano di una caratteristica, tra calore e competenza. Pensate ad esempio agli anziani o alle persone disabili: socialmente percepiti «caldi», ossia esiste vicinanza emotiva verso di loro, ma poco competenti, come se ci fosse una minore stima rispetto a status sociali dominanti. In questo caso i pregiudizi che si esprimono hanno a che fare con il paternalismo, o a volte il pietismo. In questo senso un fenomeno storicamente emblematico del pregiudizio paternalistico fu la schiavitù: gli schiavi venivano considerati stupidi e trattati come fossero animali verso i quali non si provava rispetto, ma, finché si conformavano al ruolo loro assegnato, venivano guardati con pietà. Con il paternalismo tipico dei racconti coloniali nelle case dei bianchi.

Se invece una persona o un gruppo di persone viene ritenuto più «freddo» ma molto competente – pensate a popoli come i tedeschi, o gli ebrei, oppure a categorie di persone ipotetiche come le «donne con le palle», quelle che vengono considerate in carriera o che hanno eccezionalmente attributi positivi che solitamente vengono riservati solo al genere maschile –, il pregiudizio in questo caso si collega all’invidia e alla competizione. Nel corso dei secoli è stato proprio l’antisemitismo il maggiore esempio del pregiudizio di invidia. Gli ebrei sono stati considerati come astuti, estremamente competenti e molto scaltri dalla propaganda antisemita. La loro competenza, unita alla percezione di cattive intenzioni, li rendeva per questo un nemico da temere e la mancanza di «empatia» sociale giustificava il timore e le ritorsioni nei loro confronti. Stereotipi come questi, nascosti dietro a meccanismi di autodifesa, sono serviti e servono a giustificare le forme più terribili di discriminazione e di violenza come il genocidio. Naturalmente sono esempi estremi.

Non è un complimento affermare che gli ebrei sono «abili nei commerci e con il denaro», i neri «hanno il ritmo nel sangue», o gli asiatici «eccellono nelle scienze matematiche».

I gruppi che si trovano in queste due condizioni, ossia sono soggetti a pregiudizio paternalistico o d'invidia, vengono percepiti privi di una delle due caratteristiche (calore o competenza), e sono quelli soggetti alle discriminazioni più subdole, perché l’aspetto positivo maschera quello negativo.

Sono innumerevoli gli stereotipi benevoli in cui incappiamo tutti i giorni, e che spesso pensiamo o pronunciamo a nostra volta: se una «donna può avere le palle» un’altra «non può essere toccata nemmeno con un fiore». Nel primo caso, come detto sopra, ne riconosciamo la competenza, ma non le conferiamo alcuna cura e non la riteniamo «meritevole» di empatia. Nel caso della donna che non va toccata nemmeno con un fiore, invece, il pregiudizio che si sviluppa è quello paternalistico, esattamente come «sesso debole».

La donna va protetta, ma nello stesso tempo viene ritenuta poco competente – in fondo manca di forza fisica. Questo giustifica la subordinazione, ad esempio il maschio che deve decidere al posto suo, mascherata bene dietro a una forma di cura. O come nei casi di "mansplaining" (il minchiarimento), la tendenza degli uomini a spiegare qualcosa di ovvio a donne che già la sanno o della quale sono esperte. Per non parlare del fatto che, lungi dal non essere toccata nemmeno con un fiore, la donna è oggetto di violenze spesso proprio da quegli stessi uomini che sostengono di volerla proteggere.

Sforzandoci, potremmo individuare tantissimi altri stereotipi benevoli: basti pensare a «i neri hanno il ritmo nel sangue», o «i gay sono più sensibili», gli anziani possono essere «saggi» e le persone disabili «speciali». Ognuna di queste affermazioni porta con sé un universo concettuale che viene usato per compensare una considerazione di incompetenza, o freddezza/distanza di particolari gruppi sociali.


Questa immagine rappresenta il modello del contenuto degli stereotipi tratto dal libro di Francesca Vecchioni Pregiudizi inconsapevoli.  In pratica è un asse cartesiano che divide quattro quadranti, seguendo le due caratteristiche dei gruppi sociali divisi per calore e competenza. All'interno ci sono degli esempi già citati nel testo.

Da queste emozioni si attivano due tipi di pregiudizi, quello paternalistico e quello di invidia, pericolosi proprio perché ne sfugge la gravità anche allo stesso gruppo sociale che ne viene colpito. Se rispetto ai gruppi sociali che collochiamo negli altri quadranti riusciamo a tenerci a distanza, ponendoci ora in alto ora in basso riguardo alle persone che vi collochiamo dentro, in questo caso il rischio di guardare noi stessi attraverso le lenti del pregiudizio è molto più alto. Interiorizziamo una visione del mondo attraverso cui iniziamo a leggerlo a nostra volta.

A volte le donne stesse tendono a giustificare stereotipi benevoli come «le donne sanno badare meglio alla casa», «le donne sono più portate per le materie umanistiche», «le donne maturano prima» e via discorrendo perché non ne riconoscono il pregiudizio nascosto, che le ritiene carenti su molti fronti, ma ferrate su tutto ciò che riguarda la dimensione domestica ed emotiva, «Chiedi a tua madre! Lei sa sempre tutto».

Nello stesso modo molti uomini gay non si rendono conto che essere considerati «sensibili» li inserisce in un quadro di bassa competenza, perché assimilati a un gruppo (quello femminile) a cui viene riservato un approccio di condiscendenza, bonarietà e pietismo. Non stupisce che poi l’effetto sia credere che un uomo gay sia meno adatto per un lavoro che richieda forza d’animo, o qualità di leadership nella gestione di un team, o semplicemente che non sia in grado di gestire situazioni di stress... d’altronde sono sensibili. Del resto, fino a qualche tempo fa, ai bambini si diceva «Non fare la femminuccia» e di non cedere alle lacrime davanti a un ginocchio sbucciato perché «I veri uomini non piangono». E ancora, un pregiudizio paternalistico si riserva alle persone disabili, che rischiano, come gli anziani, di essere socialmente accettate con una sorta di parziale, ma insufficiente, apprezzamento.

In parole povere, oltre a essere ritenuti «mancanti» dai gruppi dominanti, i gruppi sociali considerati senza calore o competenza tendono, a volte, a giustificare essi stessi la subordinazione sociale ai gruppi dominanti. E questo meccanismo autolimitante, come per la misoginia o l’omofobia interiorizzata, non fa che rafforzare la discriminazione seguendo un pensiero che può essere sintetizzato così: «Ma in fondo un po’ se lo meritano...».

E quando lo stereotipo siamo noi?

Il punto di vista cambia quando lo stereotipo ci riguarda. Pensate alle volte che vi è capitato di essere all’estero in vacanza e rientrare semplicemente nella categoria «italiani».

Come ci vedono gli altri popoli? Pasta, pizza e mandolino? E come vedono la nostra economia? Che tipo di lavoratori siamo? Gli inglesi ci considerano pittoreschi, in USA ci ritengono sempre alla moda. Ma siamo considerati anche mammoni e rumorosi; e poi ammettiamolo, nemmeno se ci riguarda siamo del tutto immuni dal pensare: «Be’, questo in fondo è un po’ vero!».

«Le donne non sanno guidare» e «i vecchi sono lenti», però anche «i vecchi col cappello non sanno guidare», mentre «le donne sanno fare meglio le cose di casa», e «le mamme sono meglio come genitori» perché «gli uomini antepongono il lavoro alla famiglia» e alla fine «chi porta i pantaloni»? «Chi non ha figli non può capire»... A parte che può non capire anche chi i figli li ha, comunque, potremmo andare avanti all’infinito.

Uno stereotipo rafforza l’altro, e ognuno contribuisce a mantenere quella nostra idea di mondo «prevedibile», che riteniamo più probabile. Ci fa stare tranquilli pensare di sapere già come si comporteranno le persone, cosa possiamo aspettarci da loro, e cosa no. Ma allora, dove sta il problema? Be’, una risposta «etica» sarebbe che evitarli aiuterebbe a non discriminare gli altri. Ma diciamo che questo argomento, malgrado sia «giusto», non ha una grande attrattiva per l’Homer che è dentro di noi.

La nostra mente istintiva è tendenzialmente pigra, e cerca risposte rapide. Lo fa, come dicevamo, usando una serie di strategie che in fondo soddisfano la regola «minima spesa, massima resa». Perché il livello razionale, il cosiddetto sistema 2, quello che assomiglia al dottor Spock di Star Trek per intenderci, è impegnativo in termini di tempo, concentrazione e dispendio di energie, e interviene solo quando ci soffermiamo a ragionare. Cosa piuttosto rara, come abbiamo visto.

Ma alla fine cosa c’è di sbagliato nell’usare gli stereotipi? In fondo perché non dovremmo pensare che le donne non sappiano guidare, gli anziani siano lenti, i giovani presuntuosi, i padri assenti, le persone disabili «speciali», quando tutte queste cose spesso le riteniamo vere?

L’inganno dello stereotipo è nell’elemento di verità che gli riconosciamo. Perché è quell’appiglio che ci permette di trovare sempre una conferma razionale. In pratica queste convinzioni sono basate su generalizzazioni: trasformiamo in assoluto qualcosa che «riteniamo» probabile.

Prendiamo una caratteristica, ad esempio l’età, e intorno a quella costruiamo tutto l’universo concettuale che conterrà persone accomunate da quella caratteristica. Capite bene che, a ragionarci con un momento di calma, non si può pretendere che tutte le caratteristiche di una persona possano rientrare in un solo dato comune, come l’età. Nel gruppo delle persone oltre i 60 anni possiamo ragionevolmente pensare che ci siano sportivi, informatici, innovatori, leader, professionisti competenti e brillanti role models per ogni possibile materia e competenza... e perché dobbiamo incasellare tutte queste persone in una categoria lenta, senza entusiasmo, non digitale, che guida con il cappello e resta ferma ore sul ciglio dei cantieri a guardare? Ci saranno gli uni e gli altri, e le une e le altre, logicamente.

In pratica usare gli stereotipi ci semplifica la vita ma ci porta a commettere un sacco di errori. Sbagliamo nel valutare gli altri, sbagliamo nell’interpretare le situazioni, e andiamo avanti peggiorando i nostri ragionamenti perché tendiamo a confermare le nostre idee. Il più delle volte non ce ne rendiamo nemmeno conto. E anche quando le nostre convinzioni vengono contraddette da dati inconfutabili, siamo capaci di ricostruire gli scenari per adeguarli alle nostre mappe mentali. Pur di non contraddire le nostre convinzioni, adeguiamo la realtà a noi, un po’ come Maometto e la montagna.

Se vi trovate a pronunciare la frase «Non ho niente contro di loro ma... » pensate a quale stereotipo state cedendo, perché le verità... ce le costruiamo.



Bibliografia:

Dora Capozza e Chiara Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler. Un’analisi del Mein Kampf, Bologna, Pàtron, 2004.

Federica Durante, Chiara Volpato e Susan T. Fiske, Using the Ste- reotype Content Model to examine group depictions in Fascism: An archival approach, in «European Journal of Social Psychology», 40, 2010, pp. 465-483.

Peter Glick, Choice of Scapegoats, in John F. Dovidio, Peter Glick, e Laurie A. Rudman (a cura di), On the Nature of Prejudice: 50 Years after Allport, Malden (MA), Blackwell Publishing, 2005, pp. 244-261.

Peter Glick e Susan T. Fiske, Ambivalent stereotypes as legitimizing ideologies: Differentiating paternalistic and envious prejudice, in John T. Jost e Brenda Major (a cura di), The Psychology of Legitimacy. Emerging Perspectives on Ideology, Justice, and Intergroup Relations, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 278-306.

Federica Durante, Testing and extending the stereotype content mo- del, tesi di dottorato, Università di Padova, 2008.

Susan T. Fiske, Amy Cuddy, Peter Glick e Jun Xu, A model of (of- ten mixed) stereotype content: Competence and warmth respective- ly follow from perceived status and competition, Correction to Fiske et al., in «Journal of Personality and Social Psychology», 2002. )


(Testo tratto da “PREGIUDIZI INCONSAPEVOLI Perché i luoghi comuni sono sempre così affollati”, Francesca Vecchioni, Mondadori 2020, pagg. 45-54. Le immagini sono di Giorgia di Pasquale per Diversity.)

Marika Berti

D&I Officer presso Agos Spa - Crédit Agricole

3 anni

Mi ritrovo in molte cose....purtroppo. Nelle frasi banali e comuni che lette ora qui con calma mi guidano a riconoscere quanto "classificare" sia un processo naturale, quasi inconscio....e dedicandomi negli ultimi mesi a webinar e letture riconosco che questo articolo laddove indica un "minor spreco di energie", pensando all ' ovvio ( che ovvio non è), sottolinei una parte determinante così come la cultura a cui siamo stati educati. Proprio qualche settimana fa durante una celebrazione, essendo cattolica e praticante, all affermazione " Dio ha creato l 'uomo e la donna per costruire la famiglia. Certo noi dobbiamo amare tutti ed accoglierli ma per coloro che vanno "contro natura" dobbiamo riconoscerne il peccato...." mi sono sentita a disagio completamente e nel vedere l' annuizione altrui il disagio e la rabbia mi hanno pervasa. Sono uscita pensando che ero felice che mia figlia quel mattino non fosse lì con me ...da qui la maggior convinzione che metter in discussione se stessi sia sempre opportuno così come decidere cosa accogliere e condividere della mia religione. Andando al di là delle parole guardando con una consapevolezza diversa le cose. Francesca il tuo libro sarà il mio prossimo acquisto, grazie.

Massimo Davenia

Scienze politiche presso Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Agosto 1974 iscrizione facoltà di Giurisprudenza.

3 anni

Argomento decisamente interessante e da analizzare nel profondo

bruno frigerio

Libero professionista Esperto nel settore immobiliare

3 anni

I pregiudizi provengono dal passato e dalla natura e si rafforzano quando i gay o comunque chi vede le cose diversamente da te vuole obbligarti a vedere come lui. Chiedo ... Perché se mi infastidiscono due uomini che si baciano non posso dire la mia contrarietà ? Perché devo essere omofobo per forza ? Perché i pochi devono costringere i molti ? Perché in questi casi mediare le posizioni non si vuole ? Perché i nostri figli devono avere imposto a scuola la cultura dei "diversi" che non vuol dire non accettarli a prescindere ... Questa società non mi piace .... E ora ... Avanti massacratemi ... Non c'è dubbio che molti altri non sanno fare ....

Sabina Verdi

posizione in aggiornamento

3 anni

Ho letto con interesse l'articolo, e penso che molto semplicemente, alle volte, si tratti di 'esprimere una preferenza', non di 'fare una discriminazione'. Non è tutto bello ed accettabile, come vorrebbe il politically correct. A me non piacciono alcune persone per le loro caratteristiche e perchè non sento 'calore' ed empatia nei loro confronti. Devo ritenermi una discriminatrice? Penso di no. Semplicemente non è possibile piacere a tutti e farsi piacere tutti. Ognuno di noi è responsabile di quello che mette in giro. Se ti presenti tatuato e palestrato non puoi pretendere che non ti considerino una persona potenzialmente incline a certi atteggiamenti ed azioni. Se sei dichiaratamente gay, non puoi pretendere che gli altri ti trattino come etero quando hai fatto una scelta ed hai escluso giustamente e con diritto una parte di mondo. Se sei una 'donna con le palle' hai deciso di non essere una 'gatta morta' e hai creato una visione del tuo universo personale in te e negli altri. Io penso che tutto ciò sia normale. Spesso la paura di essere esclusi si rivela la paura più atavica e incontrollabile. Di fronte a una presa di posizione, a una scelta, a una appartenenza sociale non possiamo farci niente. Prendiamone atto e smettiamola per favore con il pietismo perchè non porta progresso. A me stanno bene tutti, ognuno nel suo. Ma sono libera di scegliere chi frequentare e cosa pensare senza dovermi sentire sempre il senso di colpa dettato da chi vorrebbe che tutto fosse normalità. La normalità non esiste. E qui torniamo agli stereotipi. Sono gli stereotipi che ci fanno capire rispetto a cosa non siamo normali. E ogni stereotipo che si aggiunge ci fa capire che la normalità è solo un fatto soggettivo e che non se ne può fare una regola. scusate se mi sono dilungata. Spero di essermi espressa in modo chiaro. grazie

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