PINO PILLA. Il TOPO, LA BRACE, LA CENERE.
Era una specie di topo grigio, la barba ispida, il naso affilato, gli occhi persi chissà dove sotto lunghissime mefistofeliche sopracciglia. Metà della faccia era affondata nella mano sinistra. Dalle dita della destra si levava un cilindro di cenere lunghissimo, contorto, pericolante.
— Occhio alla cenere: casca! – gli feci.
Lui diresse su di me due occhi azzurrissimi e ironici:
— No che no’ ‘a casca – ghignò
Eravamo alla Casa dello Studente di Viale Romagna, seduti ai tavolini di fòrmica, sotto i neon della mensa. Intorno, studenti del Politecnico, di Chimica e di Agraria, ma anche spacciatori, prostitutelli della vicina Piazza Leonardo, e qualcuno dei primissimi tra- vestiti. Era l’inizio degli anni ‘70, l’aria del sabato sapeva di politica e di lacrimogeni. Da qualche altra parte della città Renato Curcio, Mara Cagol ed Enrico Franceschini cominciavano a guardare con occhio diverso le Smith & Wesson che brillavano nelle vetrine dell’Armeria Ravizza.
Io guardavo il topo grigio negli occhi beffardi, aspettando che cadesse la cenere. Ma la cenere restava in equilibrio. E non sospettavo che stava per cominciare l’amicizia di una vita.
Perché quel topo grigio con la brace dell’intelligenza che covava sotto la giacca grigia si chiamava Pino Pilla, e sarebbe diventato, come se la cosa non lo riguardasse, uno dei più grandi copywriter italiani.
Ma preferisco lasciare la parola a lui, come si raccontava qualche anno fa, con la consueta autoironia lucida e un po’ schiva.
“Milano, seconda.”
“Duemila-due-cinquanta, spiccioli per favore.”
Appena in treno cambiai idea e traslocai risolutamente in prima, in un sontuoso coupé di velluto rosso completamente vuoto.
Accesi una sigaretta, tirai fuori una busta ormai troppo spiegazza- ta e rilessi quelle 5 righe che sapevo a memoria: Mario Belli, su carta intestata NCK, mi ringraziava per la mia bella lettera e mi invitava a Milano per un colloquio.
Che fu breve e disastroso.
Nella mia bella lettera dicevo all’NCK che volevo fare il copy- writer e che ero disposto a lavorare sei mesi gratis ed altri sei con uno stipendio da fattorino. Concludevo lanciando virilmente la sfida: “…se dovessi deludervi come copywriter, il fattorino fate- melo fare sul serio”. Il fattorino? Troppa grazia, ragazzo mio, dovette pensare Mario Belli dopo tre minuti di colloquio: paralizzato dall’emozione, timidissimo, impacciato, risposi alle sue prime domande balbettando letteralmente; man mano che in lui aumentavano le perplessità in me cresceva lo stato confusionale.
Mitomane o grafomane? Mario Belli decise di non approfondire e mi congedò. Un quarto d’ora dopo essere entrato nel suo ufficio ero di nuovo in strada.
Con 2.250 lire, meglio se spiccioli, potevo tornarmene a Noventa di Piave, provincia di
Venezia, a fare lo studente di farmacia, terzo anno fuoricorso, libretto inverecondo. Mia madre avrebbe ucciso il vitello più grasso.
Per 30.000 al mese affittai invece una camera dalle parti di piazzale Susa. Mangiavo alla casa dello studente di viale Romagna dove facevo delle grandi partite a scacchi con Amìr, un arabo corpulento dalla risata trascinante che anni dopo avrebbe avuto problemi in Questura per motivi di droga. Coi pezzi bianchi era quasi imbattibile.
Ricevevo 70.000 lire al mese da casa, avevo detto a mia madre di essermi iscritto a Giurisprudenza alla Statale. Le bugie, con mia madre, avevano sempre avuto le gambe lunghe. Ma sarà meglio che cambi discorso, parlando di lei riuscirei al massimo scrivere un romanzo.
Dall’esperienza NCK, aiutandomi con un po’ di paradosso, riuscii a trarre degli auspici non del tutto negativi. Se di persona avevo fatto la figura che ho detto e con una lettera avevo ricevuto ringraziamenti e inviti, l’idea di guadagnarmi da vivere scrivendo non era poi del tutto assurda. Pagine Gialle alla mano, scelsi 21 agenzie, tutte international o perlomeno con molte linee di telefono. Redemption buona, risposero quasi tutti. Molti per declinare l’invito, cinque per fissarmi un appuntamento.
Tra questi Dario Landò, all’epoca direttore creativo della Masius. E ancora una volta scrissi una lettera. Era la “famosa” lettera del vellutaio, un test di scrittura che Landò ha fatto fare a quasi tutti gli aspiranti copy che ha visto, ne conserva decine.
Gli portai la mia agli inizi di febbraio (1969). Il 24 cominciavo.
Ero emozionato, felice e ingenuo. Avevo un’età mentale di 16 anni. Redazionali su redazionali con Brandy Florio, per un house-organ CGE intervistai Enzo Tortora, guardavo estasiato Andrea Cardile guidare spericolatamente la moviola, facevo fatica a dare del tu a Mambelli. Mi tremarono le gambe quando vidi lo stampo- ne del mio primo annuncio, Kit&Kat il prodotto, “Meno carezze, più vitamine” l’headline.
A riportarmi brutalmente alla realtà furono i continui scontri tra studenti e polizia in via Larga. Le finestre al settimo piano della Masius erano un osservatorio protetto e privilegiato, non privo di qualche senso di colpa. Il cinico titolone della Notte sulla morte dell’agente Annarumma, quella sera, non mi stupì: avevo già visto tutto alla finestra.
Rimasi in Masius sei mesi importanti per cambiare idea sulla pubblicità. Come chi entra per la prima volta in un ristorante cinese convinto di mangiare lucertole e ali di libellula, io ero arrivato al copywriting convinto che giochi di paro- le e rime baciate fossero il piatto forte. In sei mesi Dario Landò me li tolse di testa per sempre, credo che “O così o Pomì” sia oggi l’unica rima del mio portfolio.
Accettando l’invito di Matteo Lamacchia e il consiglio di molti, andai in Young & Rubicam.
Esperienza ricca e piacevole sul piano umano, un po’ sbiadita su quello professionale, anche per la sua assurda brevità. Facevo, in sostanza, un assistentato generico e poco soddisfacente, sperando che le cose cambiassero presto.
Cambiarono prestissimo grazie a una telefonata di Pirella. Andai a trovarlo in Ogilvy “per fare due chiacchiere” e, visto che ero lì, feci due chiacchiere anche con Muccini e firmai la lettera.
In meno di un anno avevo cambiato tre agenzie.
Renato Granata, che aveva appena fatto “Scappa con Superissima” in Masius, ci avrebbe quasi di sicuro rag-giunto di lì a poco e sarei diventato il suo assistente.
Accadde che il “quasi” prevalse sul “sicuro”. Renato non arrivò, e io mi trovai di colpo iscritto all’Alta Scuola, facendo l’assistente di Pirella e avendo Michele Göttsche per art director.
Si lavorava in tre allo stesso tavolo, Emanuele sbirciava le mie headline. Per bocciarle faceva finta di non aver visto niente, per approvarle diceva che “gli pareva di aver visto” un titolo che forse poteva andare.
Altre volte, su una campagna cominciata da lui e Michele, proseguivamo Michele ed io, aggiungendo due o tre soggetti. In ogni caso è stata una scuola eccezionale, anche perché io avevo voglia di studiare.
Poi, per una serie di circostanze, nacque l’Agenzia Italia. Se volevo c’era posto anche per me. Naturalmente volevo. All’ultimo momento saltò fuori anche un piccolo, incredibile 5%. Socio fon- datore, come si suol dire.
In omaggio ai miei trascorsi di studente in farmacia, il nostro primo cliente fu Cletanol Cronoattivo (“Il raffreddore è furbo, Cletanol è intelligente”). Gli altri clienti erano tutti da inventare. Potevo finalmente mantenere la promessa fatta a Mario Belli di lavorare sei mesi gratis ed altri sei mesi con uno stipendio da fattorino. E qui sento di dover stringere.
Raccontarvi quello che è stata, negli anni ‘70, l’Agenzia Italia sarebbe raccontarvi una storia che forse conoscete già. Raccontarvi quello che è stata soggettivamente mi porterebbe troppo lontano dall’asciutta concisione di un buon copywriting. Meglio lasciar perdere e arrivare direttamente verso la fine degli anni ‘70. Quando finalmente inserii nell’impeccabile razionalità del mio curriculum un errore decisivo. (“Era inevitabile, perlomeno dal punto di vista statistico” dice Enzo Baldoni, che conosce bene la mia storia. E che, sia detto tra parentesi, ce l’ho sulla coscienza io assieme a suo fratello Sandro: a suo tempo ho vivacemente sponsorizzato io il loro ingresso in pubblicità.) Il Grande Errore, dicevo. Che fu quello di lasciare l’Italia/BBDO – e sarebbe il meno – per fare il freelance, che è più grave. Diciamo, eufemisticamente, che non sono adatto.
Il free-lance, negli anni ‘70, era un creativo, un account, un direttore amministrativo a tempo
pieno. Con puntate verso la self-promotion, il recupero crediti, l’evasione fiscale, a tempo perso.
A questa massiccia domanda di multiforme ingegno rispondevo flebilmente con la mia mono- specializzazione in copywriting di scuola pirelliana, neanche il più richiesto, a quei tempi, sul mercato free. Il mio socio era Pierpaolo Cornieti, free-lance “storico” e vecchia volpe, per fortuna, del mestiere.
Dividerci ci ha aiutato a diventare amici.
Successivamente, e brevemente, mi associai a Raymond Gfeller e a Bruno Ferlazzo, ottimi art director di grande professionalità che nel ruolo di free-lance erano completamente a disagio.
Siamo così arrivati al 1982. Lo stop frame era durato 4 anni, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.
Per riprendere l’abitudine all’intelligenza decisi di rientrare in una buona agenzia. Uscii di casa alla ricerca in una bella mattina di fine maggio, fermandomi 300 metri dopo: Vincenzo Monti 9. Pirella Göttsche, grande amore cominciato in sordina, con un passaggio in perfetta dissolvenza dal- l’attività free, lavorando sempre più per loro sempre meno per gli altri, fino a un rapido botta-risposta con Pirella: “Ma per- ché non torni con noi?” “Perché ci sono già tornato.”
Ero tornato con Pirella e Michele Göttsche, con Bruno Ferlazzo e con Enrico Radaelli. Ero tornato a trovare tante occasioni di lavoro, tanta voglia di far diventa- re ogni problema una bella soluzione.
Il tutto durò cinque o sei anni, poi il ciclo finì fisiologicamente, per il prevalere della voglia di cambiare.
Non mi sposto tanto: da via Vincenzo Monti mi spingo fino in via Paleocapa e, subito dopo, in Foro Bonaparte 51: Alberto Cremona SpA. L’indirizzo merita di esse- re citato, perché come l’Italia/BBDO, come l’ufficio free in corso Magenta, come la Pirella, come casa mia, è nelle tavole 17/18 del Tuttocittà: a mezzogiorno si va a pranzo in casa.
La divagazione gastronomica nasce dal fatto che la Cremona ha, suo malgrado, il difetto di essere l’agenzia dove lavoro anche adesso: un’esperienza un po’ troppo contemporanea per poterne parlare con un minimo di distacco.
Il racconto viene sospeso per Lavori in Corso.
Fin qui Pino Pilla. Lorenzo Marini, nel suo libro che non ha titolo, racconta uno scambio di battute illuminante:
“…(Gli) chiesi perché avesse lasciato la Pirella Göttsche, dove era direttore creativo, dove aveva lavorato molti anni, dove stava bene e dove era molto amato.
Mi disse: “Ti risponderò con una frase di Leo Longanesi: la mia fantasia si è inceppata. Ho bisogno di un piccolo dispiacere.”
Sospetto che questa frase sia stata – come dire? – ricostruita, imbellita, rimpaginata con cura dal pignolissimo Marini. Se ben conosco Pino, in realtà è andata più o meno così:
“Mah… (sospiro, lungo silenzio) … (si stringe con la mano il mento ispido) … (sbuffa) … (altro lungo silenzio) … (lancia un’occhiata ironica) … te sa cossa el diseva Leo Longanesi? (Ti guarda e diventa improvvisamente preciso, scandisce le sillabe perché la citazione sia assolutamente perfetta) … la mia fantasia si è incepatta … Ho bisogno di un piccolo dispiacerre.” Pino sbaglia sempre le doppie.
Una volta lo invito in campagna per respirare un po’ di aria buona. Risposta: “Enso… a me piace l’aria vissiata.”
Ecco, Pino è sempre stato così: schivo, dimesso, disattentissimo alla propria immagine. Non va ai party. Non parla le lingue. Non si fa self-promotion. Non alza la voce. Non parla di sé. Non mette la cravatta. Non va al cinema. Veste sempre color cenere. Perfino come maestro è stato riluttante. Non mi ha mai dato un consiglio. Le cose bisognava strappargliele con le tenaglie. Non ha nemmeno un portfolio. Ma che razza di pubblicitario è?
È uno che non aggiunge, toglie. Ha cominciato in tenera età, tra- sformando un grommoso Pilla Agrippino nel liquido e fluente Pino Pilla. Ha continuato per tutta la vita. Per esempio, quando ha scritto “io esiste.” (con l’iniziale minuscola e il punto finale). Non era poi così difficile, bastava togliere una “D”. Ma prima bisognava pensarci.
Pino Pilla è un maestro che lavora per sottrazione. Proprio come il grande design. E la grande poesia. E le grandi headline.
Enzo Baldoni
Copywriter – Sto facendo l’editing di un libro sul brand di prossima pubblicazione – Fkdesign, Castelfranco Veneto, Treviso.
11 mesiIn un mondo lucidato dal potere algoritmico della socialcrazia, l’umanità è sommersa dalla viralità della movida populismo digitale. Un contenuto che non circola tanto per circolare: quello di Andriani conta perché qualcosa trasporta. Quindi, è ignorato dalla pésca a strascico dell'algoritmo. Perché lo scopo della socialcrazia non è diffondere sapere, ma circolare tanto per circolare. Non conta che cosa il contenuto trasporta, ma essere il trasporto in sé. L’informazione dovrebbe avere il fine di trasmettere un sapere, ma i contenuti oggi circolano in rete senza sapere perché. È il mezzo che giustifica il fine. Esclusi dalla connessione con noi stessi, finiamo bersagliati nella rete a strascico dell’algoritmo. E perdiamo il contenuto di Andriani.