POLITICHE (D)ISTRUTTIVE PER (NON) DARE UN FUTURO AL PAESE.
Prendo in prestito il titolo di un post pubblicato su LinkedIn per scrivere una breve riflessione sul PNRR che enfatizza in un acronimo (siamo diventati un po' amerikkkani) l'operazione del Governo e descritto in: Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per un totale degli investimenti previsti di 222,1 miliardi di euro. Il Piano include, inoltre, un corposo pacchetto di riforme (ma, sì proprio quelle che l'Europa ci chiede da sempre, roba vecchia, obsoleta, ma sempre in voga), che toccano, tra gli altri, gli ambiti della pubblica amministrazione (che da noi funziona da Dio ed è riconosciuto fiore all'occhiello del nostro Paese), della giustizia (no comment, please), della semplificazione normativa (capito bene? semplificazione!) e della concorrenza (leale o sleale?)
Insomma si tratta di un intervento (nella teoria) epocale, che intende riparare (sempre nella teoria) i danni economici e sociali della crisi pandemica, contribuire a risolvere le debolezze strutturali dell’economia italiana, e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. A parte la crisi pandemica, tutte cose risapute da decenni, sempre riconosciute, soprattutto nelle campagne elettorali, ma poi mai risolte nei fatti se non a parole (dicasi: aria fritta).
Non per essere disfattista, ma per tentare un ragionamento, tra il serio e il faceto, critico lasciando da parte la resilienza (termine che significa la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi, poi mutuato in psicologia in un concetto che indica la capacità di fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità).
Il Piano ha come principali beneficiari le donne (guarda un po'?!?), i giovani (altra novità) e (udite udite) il Mezzogiorno (squillino le trombe ed entrino i politici e gli amministratori corrotti) e contribuisce in modo sostanziale (leggere bene: sostanziale, mica bau bau micio micio) a favorire l’inclusione sociale e a ridurre i divari territoriali (perbacco!).
Diamo un'occhiata alle percentuali: nel complesso, il 27 per cento (27? Perché non 30? comunque troppo poco, ma meglio di niente) del Piano è dedicato alla digitalizzazione (finalmente), il 40 per cento agli investimenti per il contrasto al cambiamento climatico (new entry) e più del 10% (dicasi: diecipercento) alla coesione sociale che in sociologia indica l'insieme dei comportamenti e dei legami di affinità e solidarietà tra individui o comunità, tesi ad attenuare in senso costruttivo disparità legate a situazioni sociali, economiche, culturali, etniche, così, tanto per capirci.
Per quanto riguarda la Salute il settore in cui opero e sono particolarmente interessato e sensibile la sesta missione del PNRR (scusate, ma sembra un pernacchio) stanzia complessivamente 18,5 miliardi. Il suo obiettivo (nelle intenzioni è bellissimo) è rafforzare (bene) la prevenzione (molto bene) e i servizi sanitari sul territorio (fantastico), modernizzare e digitalizzare il sistema sanitario e garantire equità di accesso alle cure. Wow che belle intenzioni! Ma se vogliamo capire le vere intenzioni degli altri e conoscere il loro animo, non dobbiamo ascoltare ciò che dicono, ma osservare cosa fanno, disse qualcuno.
Nel dettaglio (sempre su carta eh?!?) Il Piano investe (investirebbe: userei, per prudenza, il condizionale, non si sa mai) nell’assistenza di prossimità diffusa sul territorio e si potenzia (potenzierebbe, anche qui il condizionale è d'obbligo) l’assistenza domiciliare per raggiungere il 10 per cento (dicasi: diecipercento) della popolazione con più di 65 anni ( e il restante 90% a quale tram si attacca?), la telemedicina (e qui ci vorrebbe un applauso) e l’assistenza remota (attenzione: remota intesa come ubicazione e non come espressione in passato remoto, che mi parrebbe più probabile), con l’attivazione di 602 Centrali Operative Territoriali (mica quelle che squillano a vuoto o sono sempre occupate o che gli operatori staccano alle ore 18:00 e non funzionano nei giorni festivi e prefestivi, eh?!?).
È bene ricordare (dal 7° Rapporto 2020/2021 del NNA) che i servizi domiciliari in Italia siano (da sempre) complessivamente deboli. In merito all’esiguità dell’investimento pubblico non sussistono dubbi, come ci ricorda (ahimè) il confronto internazionale. Infatti, per l’assistenza agli anziani spendiamo meno del resto d’Europa e ai servizi domiciliari destiniamo una quota assai più modesta dei fondi disponibili. Da una parte, la spesa pubblica è del 20% circa inferiore alla media del continente (Spasova et al., 2018). Dall’altra, solo il 17,7% di questo già contenuto budget arriva alla domiciliarità (rispetto al 52,3% dell’indennità di accompagnamento e al 30% delle strutture residenziali) (Ragioneria Generale dello Stato, 2020). Perlopiù, le analisi sulla domiciliarità in Italia si concentrano sugli stanziamenti e, di conseguenza, veicolano il seguente messaggio: “Se ci fossero maggiori mezzi si potrebbe assicurare ai cittadini l’assistenza a casa della quale hanno bisogno”. Ma le risorse, come si vedrà, rappresentano solo metà del problema. E qui nasce l'inghippo. OK avremo soldi (forse), ma poi sapremo (sapranno!) spenderli bene (no, no...non è adesso il momento delle risate)?
La tragedia del Covid-19 ha acceso una nuova luce (prima l'ENEL aveva staccato l'interruttore per morosità) sul welfare territoriale, del quale i servizi domiciliari costituiscono una componente cruciale. La ragione è nota: in molte aree del Paese una maggior presenza del welfare pubblico nel territorio avrebbe consentito di meglio contrastare il Covid-19; avrebbe permesso, in particolare, di prevenire e non solo di inseguire il diffondersi della pandemia. A partire da questa valutazione – ampiamente condivisa – è maturato un rinnovato interesse sia nei confronti del ruolo fondamentale che i servizi territoriali dovrebbero svolgere in un moderno sistema di protezione sociale, sia verso la necessità di un loro deciso rafforzamento in Italia.
E' certo che: il PNRR avrà un impatto significativo sulla crescita economica e della produttività (ecco qui si può cominciare a sorridere, con discrezione e rispetto, però, per gli autori).
Il Governo prevede (e ne è assolutamente convito, io un po' meno) che nel 2026 il Pil sarà di 3,6 punti percentuali più alto rispetto allo scenario di base (a questo punto sarà difficile resistere a qualche sguaiata risata che spunta dai loggioni e un paio di fastidiosi rumori emessi da maleducati, dell'aria della bocca con la lingua fra le labbra).
Infine, ma speriamo non sia una scena d'avanspettacolo con comici dismessi, ma un serissimo impegno da parte del Governo (tutti in piedi e mano al cuore, nella speranza che non si fermi): nell’ultimo triennio dell’orizzonte temporale (2024-2026 per i sopravvissuti), l’occupazione sarà più alta di 3,2 punti percentuali.
Standing ovation.