Qual è il futuro della professione dell'avvocato? Intervista a Giampaolo Di Marco, segretario generale di ANF
Il nostro Paese è il terzo a livello europeo per concentrazione di avvocati. Nel 2022 se ne contano poco meno di 245mila, un numero elevato, ma comunque in diminuzione rispetto allo scorso anno. Cos’è che attrae così tanto di questa professione?
L’orientamento dei giovani laureati verso il mondo dell’Avvocatura è stato un fenomeno sociale degli anni passati determinato anche da accadimenti giudiziari che hanno interessato il Nostro Paese ed hanno portato molti di loro ad intraprendere questa strada. Oggi i numeri sono in calo, ma quella dell’avvocato rimane sempre e comunque una professione utile e necessaria per la tutela e la salvaguardia dei diritti.
Secondo i dati a disposizione, in Italia ci sono 4 avvocati per mille abitanti. Ma ci sono delle sostanziali differenze da regione a regione e tra nord e sud. La Calabria è al primo posto con 7 avvocati per mille abitanti, seguita da Campania (6,2/1000), Lazio (5,9/1000) Puglia e Molise. La prima regione del nord è la Liguria con 4 avvocati per mille abitanti, il numero scende in Veneto (2,6/1000), Piemonte (2,3/1000), Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta. Se la Calabria è al primo posto per numero di legali, tuttavia, si trova all’ultimo per redditi professionali prodotti, contro la Lombardia dove il fatturato è quasi triplicato. A cosa sono imputabili queste differenze?
Le differenze su base regionale riguardano tutte le professioni e tutti i soggetti produttori di reddito e non solo gli avvocati. Per analizzare bene il fenomeno, occorrerebbe avere lenti diverse perché ci sono fattori ambientali diversi che incidono sulla produzione del reddito. Per esempio, tra nord e sud conta anche il numero dei tribunali istituiti, quanta economia di impresa ci sia nella singola regione etc. L’avvocatura è parte del tessuto produttivo e, quindi, risente dell’intero andamento reddituale del Paese e delle singole aree dello stesso. Associare il numero dei legali al solo dato reddituale, peraltro del singolo professionista, sarebbe riduttivo rispetto al fenomeno da analizzare.
Le differenze reddituali non riguardano solamente la regione in cui si esercita la professione, notevoli differenze si registrano sul versante generazionale. I giovani avvocati sono più poveri dei colleghi anziani, soprattutto gli under 40. Se fino a qualche anno fa ad essere sottopagati erano soprattutto i praticanti e i giovani in attesa di abilitarsi, oggi redditi bassi si registrano anche tra coloro che hanno 10 o 15 anni di esperienza. Cosa serve per migliorare la loro situazione?
Serve una transizione strutturale che parta dai primi anni di università e arrivi fino ai primi 10 anni della professione. Il giovane, che decide di intraprendere questo percorso ha bisogno di essere seguito, deve poter contare su un supporto di accompagnamento formativo notevole che negli anni è stato o abbandonato o non coltivato a fondo. Come anticipato in precedenza credo che per l’avvocatura sia terminata la fase espansiva. La riapertura ai pubblici concorsi ha indotto tanti a trovare nuove soluzioni, pur provenendo da percorsi di studio giuridici. Pe molti anni la pratica forense non è stata strutturata in maniera adeguata a formare nuovi avvocati, ma solo aree di parcheggio temporaneo in attesa di scelte diverse.
Dopo il caso Lidia Poet nel 1883 si aprì un dibattito che portò all’emanazione della legge n. 1176 del 1919 in cui anche le donne erano ammesse ad esercitare la professione forense. Oggi l’avvocatura italiana è sempre “più in rosa”, le donne rappresentano il 48% degli iscritti agli albi forensi. Ma si può davvero dire superato il gender gap?
No, è un percorso storico e culturale ancora tutto da traguardare. A cominciare da misure adeguate di sostegno all’esercizio della professione forense da parte delle donne che, soprattutto nella fase iniziale, devono spesso conciliare la crescita professionale con il ruolo genitoriale.
Dopo la laurea in giurisprudenza i futuri avvocati devono svolgere 18 mesi di pratica presso uno studio di avvocato, frequentare un corso di formazione e superare l’esame di abilitazione che permette l’iscrizione all’albo. Poi ovviamente c’è l’aggiornamento professionale. Un percorso molto lungo, fatto di sacrifici e anni di studio. Quali consigli si sente di dare ad un giovane per affrontare al meglio questo percorso?
Il miglior consiglio è credere nella scelta che si fa per realizzare i propri sogni. È un’attività estremamente complessa non solo sul piano giuridico, ma anche organizzativo. La professione dell’avvocato è fatta di tante sfaccettature che necessitano di un percorso professionale lungo. Per questo al giovane auguro di trovare un avvocato adulto che lo affianchi e che sia propenso a formarlo e a guidarlo. Per riuscire in questa professione servono tre passaggi: competenza, formazione, sia generale, sia specialistica, organizzazione.
Esistono diversi tipi di avvocato in base alla specializzazione: c’è il penalista, il civilista, il tributarista, il giuslavorista, il matrimonialista. In base a quali criteri un giovane dovrebbe scegliere il suo orientamento?
Chi è chiamato a formare il giovane avvocato deve aiutarlo a guardare le proprie inclinazioni per essere posto nelle condizioni di sviluppare le proprie potenzialità. Spesso quando si studia non si hanno ben chiare le ricadute, è importante che lo studente, già nel percorso formativo, sia in grado di far emergere le proprie inclinazioni.
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All’avvio della professione è quasi sempre richiesta l’apertura della partita Iva, anche se di fatto la posizione del giovane avvocato è quasi sempre alle dipendenze di un dominus. Qual è il futuro della professione? Si va verso la figura del libero professionista singolo o piuttosto verso forme di studi aggregati?
Il fenomeno dell’avvocato singolo sarà molto lontano dallo sparire definitivamente, soprattutto alla luce dell’elevato numero di avvocati presenti in Italia, ma sarà sempre più relegato a una ridotta professionalità rispetto ad avvocati che in rete possono organizzare la propria attività in collaborazione stabile, e fiscalmente utile con altri colleghi. Gli studi aggregati saranno in grado di soddisfare a 360° i bisogni dei clienti potendo contare e avendo a disposizione competenze e professionalità diverse.
Capacità di analisi, attenzione ai dettagli, persuasività, saper scrivere e comunicare, quali skill personali e professionali deve avere un bravo avvocato?
Queste sono tutte skill necessarie, ma considerando la funzione sociale che gli è propria, l’avvocato deve esercitare la professione, sempre e soprattutto, secondo i canoni tipici della deontologia forense, specie in ambito comunicativo.
La pandemia ha accelerato il processo di digitalizzazione degli studi. Soprattutto i grandi studi legali hanno investito in tecnologia per migliorare il controllo e il funzionamento interno dello studio (software di controllo di gestione, VPN, gestione dei documenti elettronici) e per rendere più efficiente l’erogazione di alcuni servizi legati al cliente (recupero crediti e CRM). Sembrano ancora restii i piccoli studi. Perché c’è questa difficoltà a percepire positivamente il potenziale tecnologico?
Perché ci sono situazioni su base territoriale e personale per le quali in maniera capillare una novità non arriva immediatamente, ma ha bisogno di essere introdotta e gestita. L’organizzazione di uno studio è una scelta dei singoli o dei professionisti che lo compongono. Quindi ben venga la tecnologia, l’importante è che sia inclusiva e che a ciascuno sia concesso di avere pari possibilità.
L’introduzione nello studio di nuovi servizi contribuisce a migliorare anche del 20% la redditività dello studio. Questo vuol dire avere al proprio interno competenze differenti che sappiano soddisfare tutti i bisogni del cliente, si va dai decreti ingiuntivi alle pratiche assicurative. Cosa cambierà ancora in questo processo di industrializzazione della professione?
Potrebbe cambiare in peggio l’intensità intellettuale che l’avvocato presta nei confronti di queste pratiche che diventano automatiche, salvo poi dover riparare a errori o superficialità che la automazione non ha previsto, svolgendo un numero indefinito di processi. Ci tengo a precisare che la parola servizi è estremamente pericolosa nella nostra professione, perché viene meno l’aggettivo che invece la caratterizza, che è l’intellettualità.
Martin Seligman, coniatore del concetto della psicologia positiva, ha affermato che gli avvocati hanno il 3,6% di probabilità in più di cadere in depressione. Ciò è dovuto al fatto che sono abituati a pensare in negativo, a calcolare in anticipo una serie di conseguenze. Una dote preziosa per il lavoro, ma meno nella vita privata. È d’accordo con questa affermazione?
Non è esattamente così, anzi non mi ritrovo affatto in questa affermazione. L’avvocato in realtà nel corso degli anni sviluppa grande capacità di analisi e di ricerca di una soluzione ad un problema. Qualità che sono poi fondamentali anche nella vita privata.
Se dovesse dare, a un giovane, tre motivi per diventare Avvocato che cosa direbbe?
La prima è che avrebbe la massima conoscenza delle regole e, quindi, del concetto di libertà, la seconda è che si sentirebbe costantemente parte del mondo che lo circonda, con la dovuta consapevolezza, oggi sempre più rara e la terza, avere la possibilità di contribuire, con l’applicazione e lo studio del diritto, alla realizzazione di una società nella quale le persone possano coltivare le proprie ambizioni per il bene proprio e della collettività.
Perché un giovane dovrebbe associarsi all’ANF?
Perché in ANF lavoriamo ogni giorno per scrutare i bisogni dei singoli avvocati. Siamo un sindacato forense, un luogo di approfondimento di tematiche attuali e future. Insomma, un laboratorio permanente, un cantiere sempre aperto dove giovani professionisti e professionisti esperti si confrontano per costruire insieme un futuro adeguato per l’intera categoria professionale.