Quando i Pazienti mettono sale sulle nostre ferite...
Se siamo genitori di adolescenti, capiamo in un secondo cosa vuol dire sentirci come se mettessero il sale sulle nostre ferite narcisistiche. Siccome sono mamma di adolescenti, oltre che psycho pure di adolescenti, non solo di adulti, di esperienza con ferite che bruciano, ne ho da vendere! La mia Paziente 15enne che mi dice: ‘non volevo venire, non serve a niente che continui’, o un nuovo Paziente che mi dice: ‘speravo in una cosa diversa, non penso di aver bisogno di questo’, così come mia figlia che mi urla che sono la peggior mamma del mondo, o mio figlio che sentenzia che non capisco niente…sono solo esempi quotidiani di sale che brucia. Ma come si fa a stare in tutto questo, non solo senza soccombere, ma tenendo anche a mente che l’obiettivo è aiutare chi in quel momento potrebbe invece ferirci? Come si può riuscire a restare riferimento, contenitore, guida di chi pare voglia remare contro al fatto stesso di farsi aiutare? Ecco, per noi psycho la terapia personale è lo strumento-principe di lavoro. La consapevolezza ci deve rendere abili e allenati a distinguere ‘ciò che è nostro da ciò che è dell’Altro’, ciò che ci viene recriminato per il ruolo che rivestiamo da ciò che riguarda personalmente noi, ciò che la Persona dice da ciò che vorrebbe invece dire. Se l'infanzia/adolescenza del terapeuta, è costellata di svalutazioni, se non ha curato queste sue ferite, il rischio è che le parole ‘svalutanti’ del Paziente le facciano bruciare un mucchio, distogliendo l'attenzione dalla sofferenza di chi ha davanti. Krishnamurti avverte: ‘se non siamo consapevoli, le nostre azioni sono reazioni alle ferite che abbiamo accumulato nella nostra storia’. La mia Paziente che brontola che non serve a niente continuare, mi sta al contempo confessando che di me si fida e che con me può anche lamentarsi, che finalmente è in una Relazione in cui può non sentirsi responsabile del buon funzionamento delle cose tra lei e me, può almeno con me smettere di stare attenta a quel che dice e a come lo dice, dato che invece a casa le fanno pesare ogni mezza parola. Mi dice di non voler venire, ma torna, resta e non salta mai una seduta, forse non è ancora convinta che potrà guarire dall’anoressia, ma intanto sa che sta trovando per la prima volta nella sua vita uno spazio di accoglienza, che accoglie amorevolmente persino la negatività. Se da psycho sono cresciuto con adulti di riferimento polemici, critici, rifiutanti, e non mi sono affrancato da questi vissuti – ciò a dire se non riconosco che il Paziente rifiutante e polemico giudica il mio operato per una sua criticità, una sua modalità disfunzionale, e non come attacco personale a me – rischio di non saper fare l’unica cosa che forse può essere davvero utile per quel mio Paziente che alle prime sedute soppesa il mio intervento: rassicurarlo che il nostro non sarà uno scontro, come probabilmente spesso nella sua vita, ma un Incontro, un incontro in cui potrà trovare lo spazio per raccontarsi, costruire la fiducia per raccontare sé; non dovrà litigarsi tutto questo, gli verrà dato ascolto, attenzione, accoglienza, senza dover prima vincere una guerriglia per ottenere ragione. Anche da genitori (di adolescenti) siamo – come anticipavo – nel mirino degli spari dei nostri figli e figlie. Vero che non possiamo tutti andare in terapia (perché no poi?!’ ma ok sono di parte) però l’esercizio dei distinguo è sempre valido e, con tanto allenamento, è efficace; distinguo le parole che mi stai dicendo da ciò che vuoi dirmi davvero: non è il tuo vero obiettivo – figlio – convincermi, in una crisi di rabbia, che sono una pessima madre (se fosse questo, non ci sarebbero ad esempio tutti gli altri momenti di vicinanza, di condivisione, di scambio), ma è tuo obiettivo di questo momento di crisi farmi arrivare la tua sofferenza, le tue paure, le tue frustrazioni, e se per ora me le sai comunicare in questo modo, va bene così, le accolgo. Non posso prenderle ‘sul personale’, semplicemente non avrebbe senso né utilità; ciò non vuol dire che debba essere immune dal mettermi in discussione, tutt’altro! Ma un conto è mettermi in discussione quando mio figlio mi dice che nella tale o tal altra situazione, ad esempio, non si è sentito capito, un conto è finire nel buco nero del rimuginìo e della tristezza/rabbia, a mia volta, perché mi ha tacciato, in episodi di sconforto, di demotivazione, di collera, di essere un cattivo genitore, soprattutto se – ribadisco – la nostra Relazione non si muove esclusivamente su questo binario, ma conosce anche molto altro (risate, coccole, confronti costruttivi, leggerezza, ecc). Dunque, parola chiave: distinguere! Ciò che mi porta il Paziente (o mio figlio adolescente) è roba sua, non roba mia; l’effetto che fa su di me diventa sale sulle mie ferite se le mie ferite non le ho riconosciute e curate. Altrimenti l’effetto che fa su di me è quel controtransfert buono- anzi prezioso... di cui parlo in altri post...
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Psicoterapeuta e Scrittrice
4 mesiSofia Tavella 🙏 per aver condiviso il mio post