Quando salvare la copia di un film o di un e-book sul cloud è “a pagamento”: la sentenza della CGUE
a cura di Laura Greco

Quando salvare la copia di un film o di un e-book sul cloud è “a pagamento”: la sentenza della CGUE

È ormai prassi ed, anzi, è considerata buona consuetudine, nel sentire collettivo, salvare e archiviare informazioni, dati personali e file sui sistemi cloud, ossia servizi (in questo caso, di archiviazione) erogati via Internet e accessibili da remoto, senza la necessità per l’utente di acquistare e installare il relativo software sul proprio dispositivo.

Ciò permette all’utente di avere disponibilità di quanto ivi salvato ovunque e in qualunque momento, essendo sufficiente connettersi a un browser e accedere al server che, in questo caso, funge da “luogo virtuale” di storage di dati.

Attenzione, però, alle situazioni in cui oggetto della scrupolosa custodia è un’opera protetta dal diritto d’autore, vale a dire – secondo la legge italiana sul diritto d’autore (l. 22 aprile 1941, n. 633) – qualsiasi opera dell’ingegno di carattere creativo appartenente ai campi della letteratura, della musica, delle arti figurative, dell’architettura, del teatro e della cinematografia, compresi i programmi per elaboratore e, a certe condizioni, anche le banche dati.

In questi casi, secondo la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la memorizzazione su cloud di un’opera protetta costituisce, a tutti gli effetti, una copia privata e, in quanto tale, soggiace alla regola dell’equo compenso (sentenza Austro-Mechana c. Strato AG, C-433/20, 24 marzo 2022).

La normativa europea dettata dalla Direttiva 2001/29/CE “sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione” prevede, infatti, che i legislatori nazionali possano introdurre eccezioni o limitazioni al diritto di riproduzione dei titolari di diritti, i quali, in questi casi, dovrebbero ricevere un equo compenso affinché siano adeguatamente indennizzati per l’uso delle loro opere o dei materiali protetti.

In particolare, l’articolo 5, 2° comma, lettera b) della menzionata Direttiva ammette proprio “le riproduzioni su qualsiasi supporto effettuate da una persona fisica per uso privato e per fini né direttamente, né indirettamente commerciali, a condizione che i titolari dei diritti ricevano un equo compenso”.

In Italia, come nella maggior parte degli Stati membri europei, questa disposizione è stata recepita imponendo tale compenso a carico non già dei soggetti privati, bensì di coloro che fabbricano, forniscono e mettono a disposizione dei soggetti privati le apparecchiature, i dispositivi e i supporti di riproduzione digitale ovvero rendono un servizio di riproduzione.

Se è vero, infatti, che il debitore dell’equo compenso dovrebbe essere, in linea di principio, il soggetto che effettua la copia privata, altrettanto complesso è identificare gli utenti privati e obbligarli a indennizzare i titolari dei diritti. Il sistema sopra illustrato, però, trasla l’onere del prelievo per copia privata sull’utente, che in definitiva lo sopporta, poiché va a ripercuotersi sull’ammontare del prezzo della messa a disposizione di tali apparecchiature, dispositivi e supporti di riproduzione ovvero sul prezzo del servizio di riproduzione fornito.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha dovuto applicare queste prescrizioni normative all’ambiente elettronico, dove la possibilità di realizzare copie digitali private è una pratica non solo diffusa, ma anche agevole e avente, pertanto, una maggiore incidenza economica.

In primo luogo, dunque, attraverso un’interpretazione ampia delle nozioni di “riproduzione” e di “qualsiasi supporto”, i giudici europei hanno ritenuto che “il caricamento (upload), da un terminale connesso di un utente, di un’opera in uno spazio di memorizzazione nel cloud messo a disposizione di tale utente nell’ambito di un servizio di nuvola informatica [leggasi: un servizio di cloud computing] implica la realizzazione di una riproduzione di tale opera” e, specificamente, la memorizzazione nel cloud di una copia di quest’ultima. In aggiunta, la Corte ha precisato che gli atti di riproduzione potrebbero essere molteplici, considerato che l’utente potrebbe accedere e scaricare (download) un’opera precedentemente caricata nel cloud un numero illimitato di volte.

In secondo luogo, secondo la Corte, sarebbe ammissibile un sistema di equo compenso che imputi al produttore o all’importatore dei server, mediante i quali vengono offerti a soggetti privati i servizi di cloud, il prelievo per copia privata (che, come illustrato, si ripercuoterebbe economicamente sull’acquirente di tali server), così come sarebbe ritenuto conforme alla normativa l’introduzione di un prelievo per copia privata sui supporti integrati nei dispositivi connessi che consentono di realizzare copie di materiali protetti in uno spazio di memorizzazione nell’ambito dei servizi cloud (come telefoni cellulari, computer e tablet).

Tuttavia, pur riconoscendone la potenziale adeguatezza, i giudici europei concludono che compete esclusivamente al legislatore nazionale valutare l’istituzione di tali sistemi che, da un lato, dovranno essere non solo proporzionati al pregiudizio cagionato ai titolari di diritti a causa della realizzazione delle copie private, ma anche giustificati da difficoltà pratiche attinenti all’identificazione degli utenti finali e, dall’altro lato, dovranno garantire ai debitori un diritto al rimborso di tale prelievo, qualora quest’ultimo non sia dovuto.

Alla luce del chiaro orientamento della Corte di Giustizia, rimane da vedere se il legislatore italiano riterrà opportuno integrare la l. 633/1941 in considerazione degli sviluppi tecnologici e del loro innegabile impatto, anche quotidiano, sul diritto d’autore.

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