Questione di talento o tenacia ?

Questione di talento o tenacia ?

 A ciascuno il suo, senza merito, perché nessuno sceglie il proprio punto di partenza. Ma a ciascuno la responsabilità di farlo rendere al meglio. Scoprire la propria vocazione ed esserne all'altezza; diventare consapevoli dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, lavorando sodo per far rendere quei talenti che altrimenti resterebbero improduttivi.

Certo, interrogarsi sul significato del talento nell'era dei talent sembra quasi un paradosso. Cosa c'è da capire? Se l'individuazione precoce e la promozione del talento è al centro delle politiche federali, se società sportive e talent scoutn danno costantemente la caccia a giovani promesse, è chiaro che sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Ci riferiamo infatti a quel famigerato "fattore x" capace di fare la differenza: quel quid che o ce l'hai (e allora tutto è possibile) o non ce l'hai (e allora meglio lasciar perdere). Quel qualcosa, iscritto nei nostri geni, che alcuni pensano di poter riconoscere fin dalla più tenera età anche grazie ai progressi della scienza e che, in un tempo non troppo remoto, si potrà forse progettare in laboratorio. Ma è davvero così?Due aspetti, a mio avviso, meriterebbero di essere meglio approfonditi. Innanzi tutto il valore del fattore talento e, in secondo luogo, il significato di quella che potremmo chiamare la logica del talento.

Quanto al primo: cosa significa, davvero, "avere talento"? E qual è il suo "peso specifico"? Non vi è dubbio che la predisposizione naturale sia un ingrediente importante nella ricetta per il successo (sportivo e non solo). Ma, appunto, un ingrediente, non l'unico. In questa accezione la parola "talento" nomina infatti quelle qualità che, senza merito, ereditiamo alla nascita; doni, fisici e mentali, che chiedono di essere messi a frutto con volontà e determinazione. Perché il talento, da solo, non basta a farci conseguire risultati importanti e sbagliano coloro che credono ch'esso possa essere sufficiente. In questo modo si fa del talento un mito, una sorta di destino biologico che sorride ai più fortunati, esentandoli dal sacrificio e dalla fatica (al genio, si dice, viene tutto facile; chi è dotato raggiunge grandi risultati con una naturalezza disarmante).Dando credito all'idea che il successo sia un destino già scritto si commette un doppio errore. Da un lato non si riconosce il lavoro necessario a far fiorire il talento; dall'altro si alimenta una cultura degli alibi che deresponsabilizza e impedisce di crescere, edificando dentro di noi limiti e barriere auto-indotte (una sorta di impotenza appresa): "Se non sono abbastanza dotato è inutile che ci provi, tanto non potrò mai farcela. E, sia chiaro, non fatemene una colpa! Se la lotteria genetica non mi ha sorriso a sufficienza che colpa ne ho?". Come a dire che chi conquista dei risultati importanti lo fa, in fondo, solo perché guidato da un destino più favorevole, senza riconoscere il carico di fatica e di costanza che ha costruito quel trionfo. Senza riconoscere, soprattutto, che quei risultati positivi sopraggiungono, molto spesso, dopo delusioni e sconfitte, germogliando dalla capacità di non mollare, di non arrendersi, di rialzarsi.

Queste veloci riflessioni ci fanno capire qualcosa di importante sulla logica del talento, che è una logica plurale, dialogica, integrata. Visto da vicino il talento non è un monolite, ma un delicato equilibrio di diversi fattori. Una miscela ben assortita di qualità biologiche e spirituali. Accanto alle doti fisiche serve infatti la capacità di lavorare duro per svilupparle al meglio, la tenacia di non mollare, la volontà di raggiungere qualcosa di importante. E ci vuole un gran talento nel gestire la fatica, nel non lasciarsi scoraggiare dalle avversità, nell'accettare con umiltà i propri limiti. Il vero talento è dunque plurale, segue una logica in base alla quale ciò che è dato e ciò che è scelto si danno la mano. Dono, libertà, determinazione, passione dialogano costantemente con le doti fisiche e le predisposizioni naturali. E non è affatto detto che il campione sia colui che nasce col potenziale atletico migliore. Forse sarebbe bene abbandonare il mito del talento e riscoprire la parabola dei talenti.

A ciascuno i suoi, senza merito, perché nessuno sceglie il proprio punto di partenza. Ma a ciascuno, anche (e soprattutto), la responsabilità di farli rendere al meglio. Scoprire la propria vocazione ed esserne all'altezza; diventare consapevoli dei propri punti di forza e delle proprie debolezze, lavorando sodo per far rendere quei talenti che altrimenti resterebbero improduttivi. In una battuta: ci vuole molto talento per essere all'altezza dei propri talenti!

Bongani Manganye

System Administrator (IT)

5 anni

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