REATI AMBIENTALI
L’evoluzione tecnico – scientifica ha comportato un notevole miglioramento qualitativo della vita individuale, rivelandosi però portatrice di inediti e più complessi scenari criminologici. Invero, il progresso tecnologico e la civilizzazione, oltre a generare molti, apprezzabili ed irrinunciabili benefici per la collettività, hanno recato con sé nuovi e sconosciuti rischi per l’incolumità pubblica e l’ecosistema. Pertanto, la nozione di rischio, la cui rilevanza era inizialmente circoscritta all’ambito sociologico, è giunta a contaminare la materia del penalmente rilevante, divenendo il perno interpretativo di una giurisprudenza sempre più incline ad ampliare le categorie classiche dei reati. Difatti, nella maggior parte dei Paesi occidentali industrializzati, l’esplodere della questione ambientale ha portato ad un notevole ampliamento della attenzione verso la tutela degli elementi fondamentali della biosfera – acqua, aria, suolo. Tuttavia, a ciò non ha fatto seguito un adeguamento delle scelte di politica criminale in grado di fornire una risposta sanzionatoria corrispondente al disvalore degli eventi concreti, rilevando ciò soprattutto in materia di diritto ambientale. E’ solo a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso che si è definitivamente preso coscienza della gravità dei rischi derivanti dal suddetto sviluppo senza regole, innalzando il livello di attenzione in seguito, da un lato, alla sempre più frequente ingerenza della criminalità nella attività di smaltimento dei rifiuti e dall’altro lato, al difficile bilanciamento delle problematiche ambientali con gli interessi sociali coinvolti e l’esercizio di attività pericolose di impresa. In Italia, il diritto penale dell’ambiente si è concentrato su illeciti riconducibili, quasi in tutti i casi, alla categoria dei reati c.d. di pericolo astratto o presunto.
Nel diritto penale, accanto ai tradizionali reati di danno, si trovano i reati di pericolo, cioè quelli in cui la condotta criminosa comporta la semplice messa in pericolo o lesione potenziale del bene giuridico assunto ad oggetto della tutela.
Per quanto concerne la specifica materia ambientale, il problema da risolvere era quindi se ed entro quali limiti fosse possibile relativizzare le presunzioni di pericolo senza pregiudicare la funzione politico – criminale assegnata a tali illeciti, dato che il principio di offensività vieta di prescindere del tutto da un accertamento della pericolosità in concreto. La impostazione più equilibrata è apparsa quella per la quale si consentiva all’imputato di dimostrare l’assenza del pericolo nella situazione empirica attraverso l’ammissione di una c.d. prova negativa, della quale poi il giudice valutava fondatezza ed attendibilità. Da ciò consegue che, le problematiche relative alla categoria dei reati di pericolo astratto o presunto, si sono collegate anche al fatto che, in presenza di una lacuna legislativa, nello specifico settore della tutela dell’ambiente, i reati che, in concreto, venivano commessi, si ricollegavano alla norma relativa al disastro doloso, il c.d. disastro innominato, disciplinato all’art. 434 cod. pen. e talvolta all’art. 449 cod. pen., cioè ai delitti colposi di danno. Occorre precisare che, inizialmente l’art. 434 cod. pen. si era posto al di fuori del settore ambientale, ed il suo utilizzo, in tale ambito, è iniziato solamente attraverso la vicenda processuale dell’ICMESA di Seveso, nella quale si è cominciato ad enucleare il concetto e l’idea di disastro ambientale. In primo luogo, si evidenzia che la suddetta fattispecie è una norma penale in bianco ed è stato inserita all’interno del codice Rocco in chiave residuale, al fine di reprimere penalmente fatti disastrosi non prevedibili nel momento di emanazione delle norme ma che la società già poteva sviluppare. La sussidiarietà del disastro innominato, unitamente alla formulazione a – descrittiva della norma, si sono prestate pertanto a manipolazioni interpretative, al punto da suscitare dubbi di compatibilità costituzionale in relazione al principio di riserva di legge nel suo corollario della determinatezza delle fattispecie penali. Alla luce di ciò, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nel 2006, in relazione ad una vicenda di smaltimento di rifiuti, ha ritenuto di sollevare tale interrogativo alla Corte Costituzionale e quest’ultima si è pronunciata – Corte Cost., 1.8.2008, n. 327 – salvando l’articolo in esame e precisando che il concetto di altro disastro deve essere enucleato tenendo conto della ratio di incriminazione e della collocazione sistematica nel codice. Da ciò consegue che, il disastro deve presentarsi come un evento distruttivo di dimensioni straordinarie, anche se non immani, dal quale deve seguire un pericolo per la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che sia richiesta la produzione degli eventi di lesioni o morte. Tuttavia, tale pronuncia non ha fugato il campo da tutti i dubbi interpretativi che si sono ripresentati con la sua applicazione nel caso dell’ILVA di Taranto e soprattutto nella vicenda Eternit. Pertanto, la Corte di Cassazione, Sez. I, 19.11.2014, n. 7941, concentrandosi sul delitto di disastro e riprendendo la pronuncia della Corte Costituzionale del 2008, nella quale si era delineata una nozione unitaria di disastro, come sopra ricordato, ha precisato come l’art. 434 cod. pen., parlando di “altro disastro”, svolga la funzione di norma di chiusura, mirando a riempire i vuoti di tutela legislativa. A tal fine, essa ha ricordato anche la sentenza Porto Marghera – Cass. Pen., Sez. IV, 17.5.2006, n.4675 – nella quale si è sottolineato che non tutte le norme previste dal Capo I del Titolo VI del Libro II del codice penale hanno la necessità della caratteristica di macroevento di immediata manifestazione esteriore, ma si parla anche di quegli eventi non immediatamente percepibili che possono realizzarsi in un arco di tempo molto prolungato, producendo comunque una compromissione della sicurezza, salute ed altri valori della persona.
A seguito dell’immane clamore sociale che la vicenda Eternit ha suscitato e per la ancor più crescente percezione della necessità di una apposita normativa in materia di tutela ambientale, il legislatore ha deciso di intervenire, con la Legge 22 Maggio 2015, n. 68, il nuovo Titolo VII bis, rubricato Dei delitti contro l’ambiente. Il nuovo Titolo è composto da 12 articoli ed al suo interno sono previsti cinque nuovi delitti: inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento del controllo ed omessa bonifica. L’articolato contempla altresì una forma di ravvedimento operoso per coloro che collaborano con le autorità prima della definizione del giudizio, ai quali è garantita una attenuazione delle sanzioni previste e tra le altre previsioni, si ricorda l’obbligo per il condannato al recupero o, dove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi, il raddoppio dei termini di prescrizione nonché apposite misure per la confisca e le pene accessorie. Oltre a ciò, è stata compiuta anche una revisione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in tema di reati ambientali, oltre all’introduzione, nel codice dell’ambiente, di un procedimento per l’estinzione delle contravvenzioni previste, collegato all’adempimento del responsabile della violazione di una serie di prescrizioni e del pagamento di una somma di danaro. I due reati che costituiscono la vera innovazione sono il delitto di inquinamento ambientale e di disastro ambientale. Dalla lettura delle norme emergono alcuni tratti essenziali della riforma che senza dubbio innovano in profondità il diritto penale dell’ambiente ed al contempo rivelano la ferma intenzione del legislatore di rafforzare la risposta punitiva nei confronti della criminalità ambientale. Tuttavia, l’impressione è che la innovazione legislativa, da un lato, ha offerto strumenti nuovi capaci di aumentare il tasso di efficacia della risposta sanzionatoria a fatti inerenti l’inquinamento dell’ambiente e la messa in pericolo della vita dei cittadini, dall’altro lato, però, essa non ha risolto totalmente i dubbi relativi alla certezza del diritto ed al rispetto dei principi fondamentali del sistema penale italiano, quali la necessità della offensività e della determinatezza delle fattispecie di reato, sollevando nuovamente gli interpreti a richiedere un ulteriore intervento legislativo di correzione, di organizzazione, di coesione e di bilanciamento con l’intero impianto dell’ordinamento, per il settore dell’ambiente. Nonostante lo sforzo del legislatore, quindi, appare corretto evidenziare che sarebbe necessaria una valorizzazione del ruolo degli illeciti minori ed un rafforzamento dello strumentario amministrativo in funzione preventiva, per dare piena attuazione anche alla ratio più profonda del quadro comunitario.