Resilienza: la grande illusione del nostro tempo?
C’è stato un tempo in cui la parola resilienza evocava il comportamento dei materiali: la capacità di un corpo di resistere a urti senza spezzarsi. Poi, come spesso accade, è finita sul banco degli imputati della psicologia pop e della crescita personale, trasformandosi in un mantra onnipresente. Resilienti qui, resilienti là, resilienti dappertutto! E così, un termine tecnico è diventato il Santo Graal del nostro esistere moderno. Ma siamo sicuri che sia davvero questo il segreto per sopravvivere (e trionfare) nella giungla della vita?
La resilienza, o l’arte di resistere a ogni costo?
La resilienza viene spesso presentata come un’armatura indistruttibile: cadi, ti rialzi; ti feriscono, ma non sanguini; perdi tutto, eppure sorridi. Qualcosa di miracoloso, insomma. Ma chiariamoci: resistere non è sempre sinonimo di vivere bene. Talvolta è solo sopravvivere, arrancare, stringere i denti fino al punto di rottura. Siamo sicuri che un’esistenza passata a “incassare i colpi” sia ciò che desideriamo? Forse, più che resilienti, ci serve imparare a dire basta.
Invece, la narrativa della resilienza sembra suggerire che chi si spezza è colpevole: “Non sei stato abbastanza resiliente”. È un’idea pericolosa. E se, a furia di essere resilienti, finissimo per tollerare situazioni insostenibili? Come rapporti tossici, ambienti lavorativi alienanti o ritmi di vita che ci prosciugano l’anima?
Empatia e gentilezza: cugine troppo osannate?
Non solo la resilienza, ma anche altre virtù come l’empatia e la gentilezza sembrano aver subito un simile destino. Anche loro, in teoria, ci rendono migliori: empatici per capire gli altri, gentili per essere più umani. Ma cosa accade quando l’empatia diventa un peso insostenibile, quando ci porta a sentirci responsabili dei dolori altrui? E quando la gentilezza si trasforma in una porta aperta per approfittatori? Essere empatici o gentili non significa annullarsi. Forse, come per la resilienza, il segreto sta nel dosaggio: saper scegliere quando e con chi usarle.
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Il mito della resilienza: ci rende più umani o più robot?
Resilienza, empatia, gentilezza: virtù che, a detta di molti, ci avvicinano alla nostra essenza più pura. Ma forse, il problema non è nelle parole, bensì in come le interpretiamo. Siamo diventati macchine da perfezione: non c’è spazio per il crollo, l’errore, la vulnerabilità. Non ci concediamo il lusso di dire: “Non ce la faccio”.
Ecco allora una provocazione: e se, anziché idolatrare la resilienza, celebrassimo la fragilità? In fondo, ammettere che siamo esseri umani fatti di carne, ossa e limiti non potrebbe essere la vera rivoluzione?
L’alternativa alla resilienza: meno sopravvivenza, più consapevolezza
Cosa ci serve davvero per affrontare il mondo? Forse non una resilienza eroica, ma una buona dose di consapevolezza. Riconoscere i nostri limiti, rispettarli e, quando necessario, ridisegnare le nostre traiettorie. A volte, mollare non è una sconfitta, ma un atto di saggezza.
E se il prossimo mantra fosse: “Non essere resiliente, sii umano”? Un invito a vivere non come rocce che resistono al vento, ma come foglie che si muovono con esso, scegliendo quando opporsi e quando farsi trasportare.
Forse, in fondo, la vera forza non sta nel non spezzarsi mai, ma nel sapere che, anche spezzati, possiamo rifiorire.
Buona vita!!
Ottimo spunto
Pedagogista - Educatrice del gesto grafico (per ottenere una scrittura chiara e funzionale) Perito grafico
4 settimaneBuongiorno, la seguo regolarmente, la leggo con molto interesse. Oggi, più che interesse, l'articolo ha suscitato in me un senso di liberazione, una boccata di aria di montagna (la mia preferita), un sollievo. Ci potevo arrivare da sola, ma evidentemente non ce kla facevo. GRAZIE