RIPENSARE L’AUTISMO | LA RIVOLUZIONE DELLA NEURODIVERSITÀ
Su Le Nius è uscito un articolo basato su un'intervista che mi è stata fatta da Andrea Genzone, autore dell'articolo.
Link all'articolo originale https://www.lenius.it/neurodiversita-autismo/
20 Novembre 2020 DISABILITÀ - di ANDREA GENZONE
Ripensare l’autismo | La rivoluzione della neurodiversità
A giugno 2020 abbiamo pubblicato questo articolo sull’autismo. L’articolo ha sollevato la reazione critica di Roberto Mastropasqua, autistico e componente del direttivo dell’Associazione Neuropeculiar – Movimento per la biodiversità neurologica. L’associazione ha l’obiettivo di contribuire allo sviluppo e alla diffusione di un nuovo paradigma socio-culturale che renda familiare il concetto di neurodiversità e valorizzi la varietà dell’espressione umana.
L’occasione ci ha consentito di conoscere l’associazione e, con essa, il concetto di neurodiversità e il movimento che lo sostiene in Italia e nel mondo. È un concetto rivoluzionario, capace di cambiare la visione sull’autismo e dunque anche il modo di relazionarsi con le persone autistiche.
Così abbiamo contattato Roberto per un’intervista, e con il suo contributo scopriamo i significati e le conseguenze concrete del paradigma della neurodiversità, e il cambiamento culturale che porta con sé.
Cos’è la neurodiversità
Australia, 1998. Judy Singer, una scienziata sociale autistica, conia il termine neurodiversità. Si tratta di un modello di pensiero mirato a promuovere i diritti delle persone neurologicamente divergenti dalla norma neurotipica. Negli anni il paradigma si afferma in diverse parti del mondo e, dopo una prima fase incentrata sull’autismo, si allarga ad altre condizioni cognitive come la dislessia, la discalculia, la disprassia, la sindrome di Tourette e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD).
Per Judy Singer la neurodiversità è un sottoinsieme della biodiversità: come quest’ultima si riferisce alla diversità biologica delle specie che popolano il pianeta, così la neurodiversità riguarda la variabilità neuro-cognitiva praticamente infinita all’interno della popolazione e l’unicità di ogni mente umana. Questa intuizione apparentemente banale ha implicazioni enormi, soprattutto dal punto di vista sociale e politico.
Questo significa che qualsiasi espressione ha diritto di esistere esattamente come le altre, spiega Roberto Mastropasqua: “faccio un famoso esempio: molti si domandano a cosa servano le cimici. Le api fanno il miele, ma le cimici a cosa servono? Le cimici non servono a ‘niente’, esattamente come tutte le altre forme di vita. Non è vero che le api servono a qualcosa: noi abbiamo trovato il modo di sfruttarle, ma non servono a ‘niente’, in effetti. Le cimici, come tutti gli altri esseri viventi, esistono in relazione ad un processo di evoluzione e hanno il diritto di esistere in quanto trovano una loro collocazione nella biodiversità della terra. Allo stesso modo qualsiasi forma di espressione della neurodiversità ha diritto di essere al pari delle altre”.
Non esiste un modo giusto di essere dal punto di vista dello sviluppo cerebrale, ma esistono n modi, tutti egualmente corretti.
Quindi, così come la tutela della biodiversità è importante per un ecosistema vitale, allo stesso modo la neurodiversità è essenziale per una società vitale.
Il movimento per le neurodiversità
Questo universo concettuale porta alla nascita di un vero e proprio Movimento per le neurodiversità. Sebbene, nelle parole di Judy Singer, si tratti di “un movimento sociale in evoluzione, decentralizzato e senza leader”, i suoi obiettivi sono molto chiari: modificare la percezione tradizionale delle persone divergenti dalla norma, sostituire gli stereotipi negativi con una valutazione più equilibrata dei talenti e dei bisogni, valorizzare gli individui emarginati consentendo loro di svolgere ruoli adatti alle loro capacità e, infine, dimostrare che l’incorporazione delle neurodiversità è benefica per la società nel suo insieme.
Come il termine biodiversità, anche quello di neurodiversità viene coniato con uno scopo politico: generare un cambiamento culturale. “Il suo significato continuerà ad evolversi come parte di un processo dialettico di cambiamento”, scrive Judy Singer, e prosegue:
Mi interessava riuscire a diffondere una conoscenza delle migliori capacità di un cervello autistico in modo da ottenere, per le persone neurologicamente differenti, quello che è stato raggiunto dal movimento femminista e dal movimento per i diritti degli omosessuali.
Modello medico vs modello sociale
Queste considerazioni ci portano dritti a uno dei nodi principali che riguardano l’autismo e le altre diverse espressioni neurologiche, ad oggi raccontate nei manuali diagnostici e nel dibattito pubblico in termini patologici: la necessità di superare il modello medico in favore del modello sociale.
Secondo il modello medico la disabilità consiste nelle limitazioni fisiche o mentali di una persona, a cui mancherebbe qualcosa per essere “normale”. La normalità è il parametro di riferimento secondo il quale alle persone viene diagnosticata una malattia o una disabilità, e di conseguenza riconosciuto il diritto a una cura.
Il modello sociale invece offre una diversa narrazione: la disabilità non sta nella persona che ne sarebbe portatrice, ma è costruita dalla società di riferimento. È il frutto di atteggiamenti, pregiudizi e barriere erette dalla società e non dai deficit dell’individuo.
La differenza tra i due punti di vista, spiega Roberto è che “se io guardo l’autismo o qualsiasi condizione solo dal punto di vista medico, cercherò solamente delle cure e degli interventi terapeutici o riabilitativi da fare sulla persona, perché il problema sta lì. Agisco solo sulla persona, perché tanto il problema è organico, in qualche maniera.” Dall’altra parte, invece, “potrà anche esserci un problema organico: se perdo le gambe, le gambe le ho perse, non è che mi ricrescono. Però, se osservo quella condizione dal punto di vista sociale, vedo quello che la società può fare per far sì che quella persona abbia le stesse opportunità di autorealizzazione degli altri”.
Roberto ha maturato in prima persona questo cambiamento culturale che ora si impegna a promuovere: “Quando ho avuto la diagnosi ho iniziato a interessarmi agli aspetti clinici e scientifici dell’autismo, come fa la maggior parte delle persone in età adulta. Successivamente, anche grazie alle persone che ho incrociato alle varie conferenze o sui social network, ho iniziato a vedere l’autismo dal punto di vista delle scienze sociali, e quindi come oggetto culturale. Il che fa una bella differenza, sia nella comprensione del fenomeno che nella comprensione di se stessi, perché l’aspetto medico vede l’autismo come una serie di deficit, mentre le scienze sociali vedono l’autismo con un occhio differente, non necessariamente come qualcosa che è inerente ai deficit della persona.”
Una delle persone che Roberto ha incontrato sul percorso che lo ha portato a diventare un attivista è Enrico Valtellina: “Enrico Valtellina è uno dei primissimi attivisti nell’ambito dell’autismo, ha contribuito a tradurre in italiano i Disability Studies e in più, visto che anche lui è autistico, è stato il primo a portare in Italia e a contribuire ai Critical Autism Studies, che sono quella branca di studi all’interno dei Disability Studies che si occupa nello specifico dell’autismo.”
Da questi studi nasce il modello sociale della disabilità, che si è concretizzato anche con la definizione da parte dell’OMS del modello I.C.F.. Il modello, prosegue Roberto, “stabilisce che la disabilità A) può essere temporanea e B) non è determinata solo da una perdita di funzionalità della persona, ma anche da come la società affronta questa perdita. Quindi io non sono disabile perché sono su una carrozzina, che è l’esempio che capiscono tutti, ma sono disabile perché con quella carrozzina non posso vivere la stessa vita che vivono gli altri. E questo perché ci sono delle barriere architettoniche, perché non mi è dato lo stesso accesso all’istruzione, alla cultura e via dicendo”.
Il lento affermarsi di questo punto di vista ha portato un cambiamento nel modo di guardare all’autismo: “dall’autismo in cui le persone erano nemmeno quasi umane, chiuse in sé stesse, senza emozioni, senza empatia a persone, invece, che hanno una diversa empatia, una diversa relazione col mondo.”
Questo non significa che occorre ignorare la conoscenza medica. “Il punto di vista clinico può servire a mettere nero su bianco che una persona è autistica piuttosto che non autistica. Questo fa una differenza, ovviamente, perché ci sono delle implicazioni delle quali bisogna tenere conto: se io sono autistico ho un modo di relazionarmi con l’altro differente rispetto a una persona che non è autistica. Per come è fatto il mio cervello e per come viene costruito il mio modello di relazione, mi pongo verso gli altri in maniera differente, questo deve essere noto, altrimenti succede quello che è successo fino adesso: non ci si comprende”.
Quello che non va bene è il concepire queste modalità non come differenze ma come deviazioni dalla norma. “La normalità è una media statistica, e corrisponde al modo in cui le persone si relazionano mediamente, ecco secondo il modello medico se tu devii da quella norma hai dei deficit, cioè la colpa è tua. Ma, nel caso specifico dell’autismo, io non ho un deficit: non è che mi comporto diversamente perché mi manca qualcosa, mi comporto diversamente perché sono diverso. È come dire che il pino è un pino e l’abete è un pino sbagliato. No! Sono due alberi diversi.
Adeguarsi alla norma: a quale prezzo?
A forza di reprimere il proprio modo di essere nel tentativo di adeguarsi alle richieste dell’ambiente sociale, le persone autistiche possono arrivare a stare male, isolarsi – come reazione difensiva, non come caratteristica dovuta all’autismo – e vivere situazioni di stress psicofisico non più controllabili, come il burnout, il meltdown e lo shutdown.
“Il burnout” spiega Roberto “è una sorta di esaurimento nervoso molto forte, mentre i meltdown sono degli scoppi di ira, delle esplosioni incontrollate in cui la persona autistica perde completamente il controllo. Oppure, al contrario, può esserci lo shutdown, dove si è talmente privi di forze, anche a livello psicologico, che ci si spegne”.
Qualunque ne sia la manifestazione finale, essa è la conseguenza di un tentativo ostinato di adattarsi al mondo esterno, le cui regole sono di solito modellate su persone a sviluppo tipico. “Se lo sforzo è portato avanti solo da una delle parti, in questo caso dalla parte autistica, è inevitabile che scoppierò, perché non posso adattarmi in maniera totale a ciò che non mi rappresenta”.
Un altro dei problemi a cui molti autistici vanno incontro riguarda le percezioni sensoriali: “Le persone autistiche vanno facilmente in sovraccarico per degli stimoli che per gli altri sono la normalità, oppure vanno a cercare delle sovrastimolazioni perché hanno necessità di stimoli molto forti. Non stiamo parlando di andare in discoteca, ma di stare in un bar con una ventina di persone che parlano e con un po’ di musica, che per una persona autistica può essere assolutamente insopportabile. O ancora andare al cinema, col volume tipico dei cinema, girare per un centro commerciale dove davanti a ogni vetrina c’è una musica diversa”.
In questo caso io, come autistico, in questa società sono disabile, ma non perché abbia delle perdite di abilità con la mia ipersensorialità o iposensorialità. Ho una disabilità perché la società non risponde a questa caratteristica, e quindi mi disabilita.
“Io fatico ad andare al cinema, al centro commerciale, nei ristoranti troppo affollati, e ovviamente non sempre ne posso fare a meno, e non è neanche corretto che le persone con queste caratteristiche debbano rinunciare a tutto questo. Anche perché questo problema io ce l’ho anche al pronto soccorso, il triage del pronto soccorso è una roba ingestibile. Mentre ci sono, per esempio, dei triage che hanno una parte per i bambini, non ci sono i triage che hanno la parte per le persone autistiche”.
La diagnosi di autismo è comunque importante
Roberto ha avuto la diagnosi nel 2017, all’età di 52 anni. “Anche se così tardiva la diagnosi è stata benefica, perché mi ha permesso di comprendere molte cose del mio passato e del mio modo di essere. Mi ha permesso di ritrovarmi non più come una persona che veniva additata come asociale, dal pessimo carattere, stronzo, pignolo, sbagliato. Ma come una persona che ha avuto uno sviluppo cerebrale differente e che quindi ha una percezione del mondo e una relazione verso il mondo differenti. È un po’ come se fosse una diversa cultura, se vogliamo fare un paragone, anche se non è pienamente calzante”.
La diagnosi fa bene alla persona e la inserisce in una comunità di riferimento, alleviandone il senso di solitudine e dando finalmente un nome alla discriminazione subita negli anni. Ma la diagnosi è anche uno strumento indispensabile, nel quadro giuridico attuale, per poter accedere ai servizi necessari.
Anche questo è un punto critico, spiega Roberto: “Il fatto che serva una diagnosi per avere i servizi è perché la legge 104 è ancora basata sul modello medico della disabilità: io ho una perdita e lo Stato interviene con servizi e terapie per riabilitarmi o curarmi. Quindi io devo per forza avere una diagnosi, farmi riconoscere come patologico è l’unico modo per avere diritti e servizi connessi. Bisognerebbe cambiare la 104 e adeguarla al nuovo modello dell’OMS, che guarda al modello sociale della disabilità”.
Stabilire se una persona è autistica o meno è rilevante anche nel momento in cui debba affrontare eventuali percorsi di supporto psicologico: “Se io ho bisogno di andare dallo psicologo, lo psicologo deve sapere che io sono autistico. Perché anche dal punto di vista dell’approccio terapeutico, tutte le teorie su cui si basa la psicologia sono state espresse da persone neurotipiche e su studi basati su persone neurotipiche, o comunque su una maggioranza di persone neurotipiche. Non esistono studi fatti su persone autistiche.”
Io sono autistico! (le parole giuste per dirlo)
Un aspetto importante nel dibattito sull’autismo (e sulla disabilità in genere) è il linguaggio. Dire “persona autistica”, “persona con autismo” o “persona affetta da autismo” non è la stessa cosa. Non è sempre facile orientarsi nel capire quale sia il linguaggio corretto da usare, anche quando si è animati dalle migliori intenzioni. Roberto ha le idee molto chiare in proposito e all’inizio di questa intervista si presenta dicendo: “Io sono autistico”.
Quindi, com’è meglio chiamare le persone autistiche? “Se stai parlando con una singola persona, basta chiederglielo. Con la persona va bene qualsiasi cosa. Dopo di che, esiste un modo ufficiale, l’equivalente di ‘persona con disabilità’, che è ‘persona con autismo’, che ovviamente è stato definito da persone non autistiche”.
“Molti attivisti e molte persone disabili preferiscono farsi chiamare disabile e non persona con disabilità. Alla stessa maniera tanti autistici preferiscono farsi chiamare o autistici o persone autistiche. Questo perché, se la base della scelta di ‘persone con disabilità’ o ‘persone con autismo’ è concettualmente corretta, cioè si mette davanti la persona rispetto alla condizione, dall’altra parte è un’ipocrisia, perché io non dico ‘persona con occhiali’, non dico ‘persona con tipicità’ o ‘con mancinismo’. Ci sono categorie che non ho bisogno di andare a definire come persona per ricordarmi che è una persona, lo dò per scontato, e quindi non si capisce perché non si dovrebbe dare per scontato che un autistico è una persona, o il disabile è una persona”.
Quindi il modo corretto, quando scriviamo e parliamo di autismo, dal punto di vista degli autistici, è sicuramente persona autistica, o autistico.
“Noi, anche come associazione, cerchiamo di promuovere questo utilizzo. Invece una cosa che riteniamo assolutamente inadeguata e sulla quale siamo abbastanza intolleranti, anche se con i giusti modi, è l’utilizzare ‘persone affette da’ autismo, disturbi dello spettro autistico, sindrome di Asperger, o anche termini quali ‘malattia’ e ‘patologia’ associate all’autismo. In questo caso ci mobilitiamo”.
Perché è importante la self advocacy
Uno dei punti che non sono piaciuti a Roberto del nostro precedente articolo sull’autismo è il fatto di aver riportato il punto di vista di un’associazione di genitori di autistici, anziché una gestita da persone autistiche. Questa osservazione ci porta a parlare di self advocacy, e della sua importanza per il cambiamento culturale di cui abbiamo parlato.
Self advocacy significa rappresentare se stessi e i propri interessi. Comporta la capacità di far valere i propri diritti e di compiere scelte e decisioni che influenzano la propria vita. L’obiettivo della self advocacy è che ogni persona decida per sé, e di conseguenza sviluppi e attui un piano per raggiungere i propri obiettivi.
Perché è importante la self advocacy per le persone autistiche? “Innanzitutto perché nessuno conosce l’autismo più degli autistici, nel senso che hanno il vantaggio di avere uno sguardo dall’interno, e questo è dimostrato anche dal fatto che ormai da anni, in particolare in Gran Bretagna e in Nord America, moltissimi gruppi di ricerca hanno al loro interno persone autistiche. Anche la revisione dei criteri diagnostici è stata fatta anche grazie all’intervento di associazioni di self advocacy come ASAN e altre”.
Inoltre, ciò che racconta il singolo autistico spesso è un’esperienza condivisa. “Ci sono tantissime persone, soprattutto quelle che sono arrivate a diagnosi in età adulta, che ci sono arrivate perché sono incappate nella loro vita in un’altra persona autistica, nella quale si sono riconosciute”.
Roberto racconta di un evento che ha contribuito ad organizzare, in cui si presentava Eccentrico, un saggio autobiografico sull’autismo di Fabrizio Acanfora: “c’era casualmente un ragazzo in questo locale che si è messo su un tavolo a disegnare per conto suo e dopo aver ascoltato la presentazione è venuto da noi a chiedere informazioni. È stato indirizzato verso l’ambulatorio Autismo Adulti di Milano, e mesi dopo ha avuto la diagnosi. La self advocacy serve quindi anche ad altri come strumento per potersi riconoscere”.
A questo proposito, cosa può fare una persona che sospetti di rientrare nello spettro autistico? “L’ideale, se si ha la possibilità, è confrontarsi con altre persone autistiche. Poi ci sono dei test che si trovano online, abbastanza affidabili. Ovviamente non sono test che nascono per essere autosomministrati e quindi sono un indicatore, non una diagnosi. Dopo di che, l’ideale è rivolgersi a un ambulatorio adulti per l’autismo sul territorio, o in un territorio adiacente, perché purtroppo non dappertutto in Italia ancora ci sono e non tutti sono ancora sufficientemente validi”.
Siamo tutti neurodiversi (ma non siamo tutti autistici)
Anche se il concetto di neurodiversità sembra fondarsi sull’opposizione a quello di neurotipicità, in realtà non è così e la contrapposizione serve solo a far emergere il tema della discriminazione. Può capitare di sentir utilizzare il termine ‘neurotipico’ in termini negativi da parte di alcune persone autistiche, ad esempio nell’ambito di discussioni online.
“In un ambito frequentato da persone autistiche esiste questo utilizzo non corretto del termine neurotipico come quello che fa solo cose inutili, sbagliate, o spreca la vita… e in parte è un processo che passano tutti, in qualche maniera. Non in modo così radicale, ma l’ho passato anch’io: è una sorta di momento rivendicativo, perché effettivamente essere autistici ed esserlo stati in maniera inconsapevole per tanti anni significa che si sono attraversati tutti quegli anni con la consapevolezza di essere sbagliati, perché così ti fanno sentire gli altri. Quindi c’è un momento di rivendicazione, di dire: ‘No, io non sono sbagliato, sono semplicemente diverso’ e allora quasi dici: ‘Anzi, se andiamo a vedere sei tu quello che parla del nulla, perde tempo in cose futili e via dicendo”.
“Però deve essere un momento, altrimenti non ha senso. Poi, se si porta avanti dei discorsi socio-culturali, di cambiamento di linguaggio, di cambiamento della società e di accettazione delle differenze, di inclusione che parte dal basso, è chiaro che dobbiamo essere i primi ad accettare le differenze. Così come non vedo persone di altre culture in maniera negativa, alla stessa maniera non vedo persone con un altro sviluppo cerebrale in maniera negativa. Non vado a dire che i pini sono degli abeti sbagliati, perché sennò rimaniamo al punto di partenza: non è cambiato niente, non si va da nessuna parte nell’accettazione delle differenze”.
Una volta trovata una sintesi più rispettosa verso le persone che si identificano come atipiche, quindi, queste parole apparentemente opposte potrebbero diventare obsolete, poiché se è vero che non esistono due menti umane esattamente uguali, significa che siamo tutti neurodiversi. La neurodiversità, allora, non sarà più declinabile come un aggettivo, ma sarà da tutti considerata un’ovvia caratteristica della specie umana.