Scegliere l'istruzione o la distruzione?
Istruzione o distruzione?
dati diffusi dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), l’istituto svedese che segue in modo costante il fenomeno: il commercio di armamenti nel periodo 2012-2016 ha raggiunto picchi mai visti, più 8,6%. Una corsa che ricorda quella vista ai tempi del contrasto Nato-Patto di Varsavia.
I conflitti consumano il materiale a ritmi vertiginosi. Le fabbriche americane che producono bombe e missili intelligenti hanno dovuto incrementare i turni di lavoro per soddisfare la domanda enorme. Al punto che, qualche mese fa, si è parlato di «penuria». La lotta contro l’Isis si porta via una quota degli ordigni, con americani, francesi ed altri alleati occidentali che li sganciano quotidianamente dalla Siria all’Iraq. Ma l’altro grande teatro è lo Yemen, con sauditi ed Emirati che spianano le posizioni dei ribelli Houthi, ma anche case e mercati.
Le tabelle del Sipri non lasciano dubbi: le petro-monarchie sono nelle prime posizioni degli importatori, li batte solo l’India, sempre alle prese con l’infinito duello con il Pakistan. Al terzo posto, dopo gli Emirati, c’è la Cina.
I venditori sono i soliti noti. In testa gli Usa, con il 33% del mercato globale, dietro ci sono Russia, Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, che ha registrato un incremento del 22%. Piazziamo la nostra «merce» in molte aree, i turchi sono il primo cliente, ma abbiano allargato la presenza nella regione del Golfo. Gli Emirati – che sono stati ribattezzati la Piccola Sparta – rappresentano una fonte di introiti importante. Il mini-stato ha aperto basi i Somalia e Eritrea, ne sta preparando una in Libia ed ha ambizioni strategico-politiche che lo spingono ad interventi diretti nei conflitti. La Russia ha sfruttato il suo intervento al fianco di Assad per fare pubblicità a blindati, aerei, corvette, missili.
C’è chi esporta caccia e tank, ma anche chi si «accontenta» di fucili d’assalto, lanciagranate e munizioni. Casse su casse che vengono dirottate per sostenere fazioni o movimenti di guerriglia. Bielorussi e bulgari, per fare un esempio, le hanno cedute ad alcuni governi che assistono gli insorti in Siria. E in questi quadranti vanno poi forte pick-up e fuoristrada: non sparano, però sono diventati indispensabili. Una parte delle battaglie sono combattute da miliziani a bordo di questi veicoli.
Nel 2017 l’ Italia destina circa 23,3 miliardi di euro alle spese militari, pari a oltre 64 milioni di euro al giorno, 2,7 milioni di euro all’ ora, 45 mila euro al minuto.
Aumenta la spesa per le missioni militari all’ estero: 1,28 miliardi nel 2017 (+7 per cento dall’ anno precedente).
Il boom della spesa in armamenti (+10% nel 2017, +85% rispetto al 2006) è sempre più a carico del Ministero dello Sviluppo Economico e finanziata con mutui onerosissimi (tassi del 30-40%, 310 milioni di interessi nel 2017).
Costi che appaiono fuori ogni controllo e che spesso vengono mascherati con capitoli di spesa o impegni su acquisti che, apparentemente, non riguardano spese militari.
“Non è in discussione”, è scritto nel rapporto, “che lo Stato debba investire risorse adeguate per mantenere operative ed efficienti le proprie forze armate. È discutibile che investa in spese militari risorse sproporzionate rispetto alle esigenze di sicurezza nazionale e alle stesse capacità gestionali dello strumento militare, per ragioni non pubblicizzabili (profitti dell’ industria bellica, privilegi della casta militare, vantaggi elettorali di politici, vincoli internazionali) e che quindi ricorra a false giustificazioni a effetto per ottenere il favore dell’ opinione pubblica che, altrimenti, non avrebbe. Ancor peggio quando lo Stato non mente solo ai cittadini ma anche ai suoi rappresentanti ovvero quando i vertici della Difesa, per ottenere il consenso del Parlamento all’ acquisto di nuovi armamenti, forniscono informazioni false e tendenziose in merito alla loro natura (abusando della retorica del “dual use” militare/civile, al punto di spacciare portaerei per navi-ospedale), al beneficio economico che ne deriverebbe (ricadute occupazionali e ritorni economici esagerati) e alle quantità necessarie (gonfiando i numeri dei mezzi da sostituire)”.
Nel rapporto, poi, viene messo in evidenza che tra le spese militari viene dedicata poca attenzione alla sfida del futuro, la cyber-sicurezza, su cui l’ Italia pare ancora molto indietro rispetto ad altri Paesi.
“A fronte degli ingentissimi investimenti in programmi militari di difesa tradizionale, ovvero riguardanti la difesa terrestre, navale, aerea e spaziale”, scrivono Vignarca e Piovesana, “ancora minima appare l’ attenzione, anche finanziaria, riservata alla difesa del futuro, ovvero quella inerente al cyber-spazio. I conflitti che verranno si combatteranno sempre meno con carri armati, navi da guerra e cacciabombardieri, e sempre più con armi informatiche in grado di danneggiare o mettere in ginocchio un Paese colpendo con un click, invece che con le bombe, le sue reti informatiche da cui dipendono i servizi strategici (reti elettriche, idriche e telecomunicazioni). Non solo gli Stati, ma anche i gruppi terroristici fanno sempre più ricorso al cyber-spazio, per ora solo a scopo organizzativo ma è facile prevedere che presto lo utilizzeranno anche come strumento di attacco”.
In questo contesto le risorse economiche messe in campo sembrano essere davvero limitatissime: “I finanziamenti destinati a rendere operativa una seria struttura di cyber-defense sono ancora molto limitati e soprattutto incanalati in ambito di intelligence civile, piuttosto che di struttura militare. Lo stanziamento 2016 di 150 milioni per la cyber-sicurezza nazionale - un ‘una tantum’ non confermato per il 2017 - è destinato per un decimo al Cnaipic della Polizia postale, e gli altri 135 milioni al Sistema di informazione per la Sicurezza della Repubblica, vale a dire ai servizi segreti”.
I numeri sulle spese militari sono spesso contrastanti. Appare certo poco allineata la dichiarazione del Ministro Pinotti che di recente ha precisato come «sulla Difesa non si può più tagliare, dopo che negli ultimi dieci anni le risorse a disposizione sono state ridotte del 27 per cento. Tutto quello che si doveva tagliare si è tagliato, ma ora sul capitolo Difesa è venuto il momento di tornare ad investire». In realtà il rapporto racconta altri numeri. In realtà il rapporto evidenzia come “nei bilanci della Difesa non vi è un taglio bensì un aumento delle risorse del 7 per cento (da 19 a 20,3 miliardi) in sostanziale costanza del rapporto budget Difesa/Pil (1,28-1,25 per cento), dato, quest’ ultimo, indicativo della volontà politica di destinare alla Difesa una porzione fissa della ricchezza nazionale. L’ evidenza dei dati ufficiali dello stesso Ministero della Difesa mostra in realtà un aumento del 3,2 per cento nel 2016 (20 miliardi) rispetto al budget 2015 (19,4 miliardi) e anche un lieve aumento in termini percentuali sul Pil (da 1,18 a 1,21 per cento)”.
Molto interessante!