Separazione, separarsi
La ricerca psicoanalitica, coadiuvata e sostenuta dagli studi dell’Infant Research e dai teorici dell’attaccamento, ha esplorato e studiato il ruolo della diade madre bambino nella crescita bio-psico-sociale del cucciolo d’uomo. Il soggetto umano trova significato attraverso un significante, che nelle prime fasi di vita è rappresentato dalla madre (o da chiunque si trovi a svolgere la funzione materna).
D’altro canto, questa condizione di apparente impossibilità a evolvere sul piano psicologico e mentale senza un adeguato sistema di cure - in cui rientra l’appagamento di bisogni primari concreti (la fame, il solletico, la sete e tutte le altre funzioni fisiologiche di base) e affettivi, come la possibilità di piangere e arrabbiarsi, il rispecchiamento, il riconoscimento delle emozioni - si accompagna a una condizione profondamente umana che la vita, prima o poi, richiede: la possibilità di imparare a stare da soli.
Così come il bambino che inizia a muovere i primi passi in autonomia, anche la mente procede nella direzione di trovare un proprio confine attraverso una regolazione emotiva e riflessiva interagendo con l’Altro di riferimento. Queste fasi, questo processo di graduale separazione e individuazione, possono aver luogo per tutta la vita. Oppure non accadere mai. Ora, che cosa significa separazione? Cosa significa separarsi? E da chi, o da cosa? Chi è che compie questa separazione e perché appare così complesso realizzarla?
Separazione deriva dal latino se-parare, dove la particella “se” significa divisione e “parare” sta per apparigliare, mettere al pari. Dunque separazione significa dividere ciò che era prima congiunto. In quest’ottica, la prima grande e inconfutabile separazione che il cucciolo d’uomo si trova a vivere è la sua stessa nascita. La separazione da un ambiente verosimilmente calmo, caldo, rassicurante e capace di provvedere al suo nutrimento. Si trova improvvisamente proiettato in una realtà ricca di stimoli da iniziare a elaborare e privato del cordone ombelicale che in modo del tutto automatico provvedeva al suo fabbisogno.
Il cucciolo dell’uomo quindi, come tutte le altre specie animali, inizia la sua esistenza nel mondo solo nel momento in cui fa’ l’esperienza di una separazione. È qui che entra in gioco la complessità della mente umana: separazione fisica non implica separazione psichica. Dunque il neonato si ritrova sì in un mondo estraneo e rumoroso, caotico, improvvisamente disgiunto, ma in qualche modo sperimenta anche un senso di continuità con quell’ambiente ormai concretamente perduto.
Il bambino in qualche modo è portato a ricreare la sensazione percepita nell’ambiente intrauterino nell’interazione con la madre, in quanto un cambiamento esterno non necessariamente implica un cambiamento interno. La stessa sensazione di perdita si verifica nei lutti, nelle amputazioni degli arti, alla fine di una relazione, al raggiungimento del pensionamento e, ancora, quando si perde una parte di sé. Il tema della separazione è spesso presentato insieme al concetto di solitudine: separandomi, colgo quel senso iniziale di vuoto, un vuoto che è in realtà pieno di sentimenti potenti e contrastanti; solitudine, depressione, isolamento, paura, senso di libertà.
È curioso come fin quando non si riesce a cogliere il senso dell’essere separati dall’Altro e mantenere un confine, indipendentemente dalla fase evolutiva in cui ci si trova, l’idea di muoversi verso una posizione di individuazione ed essere disposti a perdere quel senso di continuità risulti così angosciante. Una seconda duplice polarità spesso associata al tema della separazione è quella di dipendenza/controdipendenza. È sentore comune che l’uomo oggi scambi modalità controdipendenti, che possono assumere la forma di assoluto individualismo, autarchia o supposta indipendenza con l’idea di essere separati dall’Altro.
Purtroppo, questo è quanto di più lontano da un’idea di confine psicologico: o meglio, la controdipendenza può essere un modo per rapportarsi con i propri confini, ma non assumendoli, così come le dinamiche - e non necessariamente un funzionamento - di tipo dipendente. Esse sono le due facce della stessa medaglia e svelano entrambe la fragilità dell’essere umano nel concepirsi separato da un altro Io-Soggetto, nel potersi pensare disgiunto ma coeso, stabile per se stesso e non esclusivamente in base ai movimenti dell’Altro, siano essi per allontanarsene o per tenerlo vicino a sé.
Ricordo un passaggio della mia analisi in cui la mia analista utilizzò una potente metafora per descrivere il senso di questo continuo essere orientati all’Altro: tutto un sistema solare, fatto di pianeti, satelliti e orbite, che ruota intorno a un sole rappresentato dall’Altro. Indipendentemente dalle possibili funzioni secondarie che questa modalità implica, che variano in base al funzionamento psichico individuale - riconoscimento narcisistico, richiesta di supporto e conferma di sé, modalità di controllo passivo-aggressive volta a tenere incollato a sé l’altro o, viceversa, strenuo evitamento di vicinanza e contatto al fine di alimentare la propria idea di autonomia - l’idea che implicitamente veicola quella metafora è la potente attrazione che l’Altro può profondamente esercitare su di noi.
Qui aggiungerei un terzo elemento di distinzione rispetto a cosa non è separazione: separazione non è assenza, vacuità o vacanza. Concepire l’idea di essere separati dall’Altro, di avere un confine proprio e dunque un limite significa permettere un incontro reale e non fantasmatico con l’Altro. Che dunque lo presentifica in modo potente e incisivo, con tutto ciò che comporta la fatica di concepire la presenza di un’Alterità che può relazionarsi all’Io-Soggetto.
È nel mantenimento di questo confine, tuttavia, che è possibile continuare a incontrare l’Altro e dar luogo a quell’interazione tra Io-Soggetti che pensano, che sono presenti e che utilizzano la loro capacità riflessiva per fare esperienza di Sé, dell’Altro e di Sé in relazione all’Altro. L’assenza di separazione, viceversa, annulla la presenza dell’Altro in quanto concepito o come nostra estensione o, viceversa, ci concepiamo noi come estensione dell’Altro. E questo crea un vacuum che toglie spazio all’esperienza dell’incontro e del nuovo nello stesso perché impedisce di cogliere sia la propria soggettività, sia la soggettività dell’Altro.
Fiorenzo Dolci