Serve ancora una cultura aziendale?
Con il mondo del lavoro in costante evoluzione e la trasformazione digitale amplificata dall’Intelligenza Artificiale, gli schemi tradizionali di P&O vacillano. Tra nuove esigenze e nuove condizioni ci sono ancora stelle polari a indicare la rotta?
Uso da sempre l’estate per riposare, tirare un po’ le somme e studiare. E nell’ultima pausa di vacanza mi sono trovata a riflettere su alcune domande che da tempo catalizzano l’attenzione di imprenditori, analisti di settore e anche di amici e colleghi del mondo P&O.
Il mercato del lavoro è in subbuglio, le differenze generazionali sono sempre più marcate, l’evoluzione tecnologica genera ansie e speranze anche contraddittorie sui percorsi professionali. In questo scenario, per quale ragione oggi il collaboratore - una certa cultura lo chiama ancora “dipendente” - sceglie di restare in azienda? Quando decide di cambiare? Come valuta un’offerta o un percorso di carriera?
Dal punto di vista del datore di lavoro: Cosa interessa davvero ad un lavoratore nel 2024? In che modo posso ingaggiarlo e renderlo più produttivo? Come posso fare in modo che i talenti non abbandonino l’azienda? In che cosa ha senso che io investa per sviluppare i manager del futuro e per attirarli dal mercato?
Le risposte a questi interrogativi mutano in base a molte variabili: età, industry, professione, formazione… non esistono visioni univoche e gli stereotipi vacillano.
Le percezioni, le esigenze e i criteri di valore delle persone rispetto al lavoro sono in continua evoluzione. E la trasformazione digitale – accelerata dall’AI - sta alimentando il cambiamento.
È una rivoluzione culturale, oltre che del business e dei processi di gestione, che le aziende devono capire e affrontare anche per attrarre nuovi talenti, custodire quelli che hanno già e farli crescere.
Una nuova grammatica del lavoro
Che le parole d’ordine del mondo del lavoro evolvano non è un fatto nuovo. Oggi, mantra di lungo corso come efficienza, pressione e performance, sono affiancati da nuovi topic come work life balance, leadership partecipativa o smartworking. La lista di parole chiave si allunga, ma il cambiamento in atto non è tanto nel vocabolario quanto nella grammatica del lavoro.
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Un fattore comune a tutte le diversissime situazioni che ho attraversato è sempre legato alla capacità di comprendere concetti vecchi e nuovi in una cultura aziendale chiara e orientata. Il discrimine tra successo e fallimento - di business oltre che di gestione della community delle persone- sta proprio nell’attitudine di elaborare e usare questa grammatica.
Tra climi tossici e best workplace
Studi e analisi fotografano un paesaggio del mondo del lavoro variegato e complesso. Si va dall’80% di Gen Z e Millennials che si dichiarano pronti a lasciare il lavoro a causa della cultura aziendale tossica (McKinsey), al 40% di dipendenti che sentono indebolito il senso di appartenenza all’azienda per via dello smartworking (ASUS Business).
Viviamo in scenari apparentemente contrastanti da cui emerge che non è possibile affidarsi in toto a schemi interpretativi univoci e standardizzati. Ogni singolo dipendente è un soggetto unico e come tale deve essere analizzato e gestito, con le sue competenze, esigenze, aspettative e specificità. Ma i rischi (e i danni) di trattare ogni collega come un’isola sono evidenti, soprattutto in aziende che contano al loro interno professioni, seniority ed esperienze anche molto diversificate.
La chiave di volta sta nel contesto che li accoglie. Serve un territorio inclusivo che si pone e propone a ogni lavoratore, vecchio e nuovo, con una identità chiara e consapevole. Una cultura aziendale che valorizzi il contributo di tutti, creda nelle persone, le metta al centro delle decisioni.
Capi, nani, giganti e Nutella
“Un buon capo può far sentire gigante un uomo normale, ma un capo cattivo può trasformare un gigante in un nano”. È una frase di Michele Ferrero che mi porto dietro da tempo. Ispira, guida e giudica molto del mio lavoro e del management delle aziende, che vivo e che ho vissuto. La considero l’incipit del manifesto ideale di una buona leadership.
Non è una visione romantica o utopistica della P&O, ma un dato di esperienza e una constatazione dei costi-benefici. Perché significa diminuzione del turnover e degli sforzi di retention, riduzione dei costi per l’azienda e dello stress per i collaboratori. E perché genera più efficienza dei processi, soddisfazione dei lavoratori, capacità di innovazione, maggiore produttività e anche una sana policy di premialità e merito.
La leadership partecipativa è una scelta che l’azienda deve fare all’origine e agire ogni giorno, a partire dai suoi manager per coinvolgere ogni singolo collega. Il tempo ne rivela rapidamente i benefici anche di business secondo una logica molto semplice, che Richard Branson sintetizzava affermando: “Se ti prendi cura dei collaboratori, loro si prenderanno cura dei tuoi clienti”.