Storytelling e Squali

Storytelling e Squali

Da sempre ho un'attrazione per gli squali. Anzi, prima ancora di avere una passione per gli squali, sarebbe giusto dire che sono naturalmente attratto dal mondo marino e dall'elemento acquatico. Questo semplicissimo dato mi ha permesso nel tempo di seguire documentari e trasmissioni a sfondo naturalistico con un certo rigore e una severa dedizione. Nel tempo, come avviene credo a chiunque, mi sono chiesto, al di là della speciale e kantiana ammirazione per il mare come concetto di vastità e di mondo "altro" prevalentemente inesplorato, cosa fosse a interessarmi in modo così speciale di questi predatori. Senza dubbio, lo squalo si ricollega alla sublimazione delle nostre paure più remote e nascoste, fino a diventare il simbolo del pericolo che incombe quando meno te lo aspetti. Fino a coincidere con il destino. Per farla breve, ho puerilmente attribuito questa passione, oltre che a una naturale curiosità, a uno stato ansioso che aveva bisogno di fare forma alle sue preoccupazioni. Una forma simbolo che, a guardare bene, ha un carattere universale più o meno come l'Uomo Nero per i bambini (le prime ombre, i riflessi e le luminescenze delle sirene di un'ambulanza...). Ci si confronta con la paura da subito, come a ricordare che la grande battaglia dell'uomo in vita è la conservazione di sé e la lotta per la sopravvivenza. Il male e il pericolo, il Grande Nemico sono sempre in agguato.

Poi, tempo dopo, mi sono domandato quanto avessero contribuito i media ad alimentare questa percezione dello squalo come BauBau della nostra vita psicologica ed emotiva. Tutti ricordiamo il fantastico esordio del primo vero grande film di genere. Steven Spielberg aveva 29, era il 1975, e con Lo Squalo il regista introduceva per la prima volta un animatronic di eccezionale verosimiglianza e metteva un piede nella storia del cinema. Quella pellicola, nonostante tutto quello che si possa dire, fu la prima grande operazione di fiction del mondo contemporaneo. Si prendeva un archetipo simbolico di uno stato emotivo universale (La Paura) per trasformarla in una narrazione al cardiopalma. Inutile dire che da allora fino agli ultimi grandi film di genere come Open water, del 2004, e The Reef, del 2010, la struttura narrativa non è mai mutata (e come potrebbe?), lasciando intatto il contesto e, piuttosto, capovolgendo il punto di vista fino a dare al pubblico un'epilogo controverso.

Ora, nei film possiamo ancora capire che la finalità, quella dell'intrattenimento, e lo schema progettuale, così come l'hanno nel tempo studiato e teorizzato Syd Filed, Vogler e McKee, devono necessariamente includere una serie di elementi che sono alla base del prodotto finzionale: il protagonista, l'antagonista, il pericolo, la lotta, il momento di massima intensità drammatica, la soluzione finale. Come dire, accettiamo queste regole già dal sottotitolo, dall'occhiello del film che, come in una piccola sinossi, ci racconta in due righe di cosa si tratta:  

Lo Squalo - un grande squalo bianco mangiatore di uomini attacca dei bagnanti sull'isola di Amity, un immaginario luogo di villeggiatura estiva, spingendo il capo della polizia locale a cercare di ucciderlo con l'aiuto di un biologo marino e un cacciatore di squali professionista;

Open water - Susan e Daniel, giovane coppia con la passione per la subacquea, partono per i Caraibi per le loro vacanze. Durante un'immersione, a causa di un errore nel conteggio, la barca riparte senza che nessuno si accorga sono ancora sott'acqua. Una volta riemersi, nel mezzo dell'Oceano, si trovano circondati dagli squali. 

The Reef segue più o meno lo stesso schema. Quello che accomuna questi prodotti è il patto con lo spettatore che è già dichiarato: la sospensione dell'incredulità è a favore dell'accettazione della finzione che, per qualche istante e con le sue regole, diventa vera e ci trasmette le emozioni che cerchiamo e speriamo di trovare. Va da sé che nessuno crede davvero che uno squalo possa incarnarsi in una creatura malefica, in grado di pianificare il male con la pedissequa dedizione di un serial killer. Lasciatevelo dire: sarebbe grave, più o meno come credere che esistano macchine nere senza autista che sfrecciano di notte nelle autostrade d'Italia ad ammazzare la gente per poi svanire nelle nebbie. 

Perché questa premessa? Semplice. Mentre nei film accettiamo il patto con i creatori della storia e assieme ci inoltriamo nel magico mondo del passatempo, nei documentari pretendiamo che, almeno in parte, resista quell'intento di ricerca scientifica che poco concede alla spettacolarizzazione. Vediamo il caso concreto.

Mi è capitato di seguire la Shark Week 2015 su Discovery Channel. Come ogni fissato che si rispetti, mentre leggo libri (che mi regalano le persone a me vicine) sugli squali, mi concedo il tempo della visione di questi special naturalistici. Ne trovo uno, che a me è piaciuto, che mi aiuta a riprendere il filo del discorso. Si chiama Island of the Mega Shark ed è una di quelle follie molto americane in cui un gruppo di ricercatori rischia la pellaccia per un incontro ravvicinato con questi affascinanti predatori. L'obiettivo, già di per sé, non conserva nulla di scientifico, sembra più il pretesto per un plot cinematografico sul genere horror: trovare lo squalo più grosso mai visto. Arrivati in una zona della Guadalupa (o in Sudafrica, non ricordo), dove si incontrano gli squali più grandi al mondo, decidono di filmarli mentre attaccano una gabbia di plexiglas con dentro un sub. Premetto: la gabbia in questione è davvero fragile e, messa in relazione alla lunghezza media di questi simpatici pescetti, lascia abbastanza esterrefatti. Perché l'uomo nella scatola (the man in the box), Dickie Chivell (a cui ho chiesto l'amicizia su Facebook) decide di rischiare la vita? E, soprattutto, che cosa ha a che vedere con l'intento della ricerca scientifica? Mi sembra un perfetto esempio di come il linguaggio e le modalità narrative della fiction stiano permeando ogni altro aspetto della divulgazione (giornalistica, scientifica, ecc). Vediamo lo spezzone. (cliccate qui

Approfondiamo. In questo video il climax ha un forte carattere di suspence: si rompe la maniglia della gabbia che permette a Dickie di tenere chiusa la gabbia. Il sub rischia di venire attaccato se non riesce a tenere chiusa la porticina che lo separa dai predatori che ora lo circondano. Alla fine si trova un rimedio (molto precario, per altro) e Dickie riesce a tenere sotto controllo la situazione. Alcuni elementi della fiction story:

1) la situazione degenera e il centro dell'attenzione è nella situazione critica che sta vivendo Dickie

2) l'intento della ricerca naturalistica (ammesso che cercare un esemplare grosso lo sia) scompare lasciando il posto alla necessità di trovare una soluzione immediata (l'elemento problem solving, che è centrale nella narrazione)

3) il sapiente alternarsi di campi e controcampi lascia intendere una regia più che ragionata e serrata nei ritmi

4) il voice over, parte della post produzione, sottolinea ogni passaggio con forte ridondanza e intensità emotiva

5) gli animali vengono presentati più come astrazioni simboliche che come oggetti di studio

Certo, si potrebbe obiettare che si tratta solo di un estratto pubblicato su YouTube, tra l'altro aspramente criticato dal pubblico che, sotto il video, mette in evidenza come di fatto i documentari siano diventati una specie di rumoroso spettacolo mediatico tra il thriller e l'adventure (come certi videogiochi) e, quindi, preparati ad arte come nella sceneggiatura di un film. Eppure, se vedete il doc per intero il discorso non cambia. La fiction structure si concentra sulla costruzione meticolosa della suspence, con scene sempre più pericolose e d'impatto, con sfide sempre più superbe, fino alla chiusura finale. 

Gli ultimi sviluppi della documentaristica, quindi, seguono lo schema dell'entertainment ma, mi chiedo, siamo sicuri che sia un male? Se partiamo dal presupposto che nulla di quel che si vede abbia un carattere meramente scientifico o, magari, ci alleniamo a distinguere cosa sia attendibile sul piano della divulgazione nobile, e cosa invece sia puro show, mi sembra semplicemente che l'offerta si stia arricchendo e che i linguaggi mass-mediali si stiano sempre più raffinando dal punto di vista narrativo, con l'obiettivo di rilassare, distrarre, coinvolgere più che di informare e rendere coscienti. Se, poi, abbiamo davvero bisogno di un approfondimento conoscitivo, attendibile sul piano delle conoscenze, nozioni e teorie, il mio consiglio è torniamo all'Enciclopedia Treccani (magari l'edizione più aggiornata) senza aver paura con ciò di apparire vetusti.

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