Tassazione pilota aeromobile in triangolazione UE: un interpello disastroso

Tassazione pilota aeromobile in triangolazione UE: un interpello disastroso

L’istanza d’interpello è un utile strumento che il contribuente può usare per ottenere chiarimenti in relazione a un caso concreto e personale, onde conoscere l’interpretazione e l’applicazione di norme di legge di varia natura relative a tributi erariali, prima di attuare un comportamento fiscalmente rilevante. 

Appare dunque evidente che non si dovrebbe presentare interpello, quando:

-         Non esistono particolari problemi interpretativi e applicativi delle norme

-         Il contribuente ha già attuato dei comportamenti fiscalmente rilevanti

Quello che presentiamo oggi, è un caso davvero singolare, nel quale l’autore dell’istanza, non solo dimostra una scarsa conoscenza della normativa specifica, ma, soprattutto, crea un notevole danno erariale in capo al proprio assistito, il quale ha già adottato un comportamento fiscalmente rilevante.

Il “malcapitato” è un pilota d’aereo, fiscalmente residente in Italia, assunto nel 2007 con contratto a tempo indeterminato da una compagnia avente sede legale nel Regno Unito e sede operativa in Portogallo. La retribuzione è tassata in Portogallo, mentre la contribuzione sociale (per la quale non sono previste detrazioni) viene pagata nel Regno Unito, Paese in cui, datore di lavoro e dipendente (ciascuno per il 50%) versano contributi in un fondo pensione integrativo fin dal 2010.

Posto che, nel corrente 2020, detto fondo andrà a capitalizzazione lasciando la possibilità al titolare di optare per la liquidazione del capitale o la corresponsione di una rendita, il pilota vorrebbe conoscere il regime di tassazione di queste somme, tenuto conto che intende spostare la propria attività lavorativa in Italia nello stesso anno 2020.

Permetteteci, innanzitutto, una breve ma doverosa premessa, al fine di precisare quanto segue: stiamo dando per assodato che il modus operandi (tassazione in Portogallo e contribuzione nel Regno Unito) sia corretto. Peraltro, occorrerebbe in realtà andare ad approfondire meglio l’intera situazione al fine di accertare:

A)    Quanto alla tassazione, se l’effettiva sede di direzione dell’impresa sia davvero in Portogallo

B)    Quanto alla contribuzione, se il pilota sia realmente “basato” (home-based) nel Regno Unito

Venendo meno questa duplice situazione, infatti, il tutto sarebbe da rivedere.

In effetti, in relazione ai termini esposti (non è dato conoscere altri elementi), sembrerebbe semmai che la direzione della società sia localizzata in Inghilterra e che il pilota sia viceversa di base in Portogallo.

Ciò chiarito, però, posto che, in ottica convenzionale, per la concreta fattispecie non vi sono differenze fra il trattato Italia / Portogallo e quello Italia / Regno Unito, e, soprattutto, che la cosa non rileva ai fini dello scopo che ci si prefigge nella presente sede, non interessa andare ad analizzare più di tanto le anzidette condizioni.

In ogni caso, prima di pensare a una qualunque istanza di interpello tesa a rispondere al quesito in argomento (che, a dire il vero, non parrebbe presentare affatto tutte queste difficoltà interpretative e applicative), la preventiva valutazione che andrebbe fatta dal professionista incaricato, dovrebbe essere ben altra.

Questo signore percepisce redditi di lavoro dipendente all’estero fin dal 2007 e non ha mai dichiarato alcunché in Italia, dove peraltro risulta fiscalmente residente: siamo assolutamente sicuri che tale comportamento adottato sia stato corretto? Perché – è evidente – se non fosse così, nel presentare l’interpello, stiamo auto-denunciando il nostro cliente all’Agenzia delle entrate per omissioni dichiarative ed evasioni fiscali protrattesi ormai da 13 anni.

In proposito, pare superfluo ricordare che i residenti, per le fattispecie eventualmente previste, dichiarano e versano le imposte in patria su tutti i redditi ovunque prodotti (c. d. Worldwide Principle Taxation), fatto salvo il meccanismo del credito d’imposta per quanto già pagato all’estero a titolo definitivo. Onde appurare se, nel caso in questione, il contribuente italiano sia venuto meno ai suoi obblighi tributari nei confronti del Fisco italiano, occorrerà allora verificare cosa prevede la convenzione contro le doppie imposizioni di riferimento: Italia / Portogallo (posto che, sul punto, interessa la tassazione e non la contribuzione, la quale viceversa avviene nel Regno Unito).

Chiunque, infatti, abbia una minima conoscenza della materia, sa bene che, per il settore “navi e aeromobili”, sono spesso stabilite delle eccezioni rispetto alla regola generale, la quale – come risaputo – dispone che un rapporto di lavoro dipendente svolto in forma continuativa all’estero alle dipendenze di un datore di lavoro straniero privo di stabile organizzazione in Italia, è soggetto a tassazione solo nel Paese in cui viene prestata l’attività lavorativa (vale, cioè, il requisito della territorialità per quanto attiene alla potestà impositiva dello Stato).

Nello specifico, la convenzione Italia / Portogallo prevede che:

“Le retribuzioni per lavoro subordinato svolto a bordo di navi o aeromobili in traffico internazionale, sono imponibili nello Stato nel quale è situata la sede di direzione effettiva dell’impresa”.

A differenza della previgente ricordata regola generale (per la quale la convenzione precisa: “sono imponibili soltanto in tale Stato”), nel caso che ci occupa, l’avverbio “soltanto” viene omesso. Ciò significa che entrambi gli Stati hanno la potestà (concorrente) di tassare i redditi in argomento e, semmai, sarà il contribuente a far valere il proprio diritto di non essere sottoposto a una doppia imposizione, ricorrendo agli strumenti all’uopo definiti nel trattato (art. 22).

Come se, poi, questa “doccia fredda” non fosse stata sufficiente per il malcapitato pilota, è di tutta evidenza che la situazione sanzionatoria non si fermerà a: omissione modello unico ed evasione impositiva per redditi esteri di lavoro dipendente. Questo signore, assai probabilmente avrà un conto corrente bancario in Inghilterra. Di conseguenza: omissione agli obblighi di monitoraggio da quadro “RW”. E ancora non basta. Viene auto-denunciato il possesso nel Regno Unito di un fondo di previdenza complementare. Ma, la normativa italiana impone l’obbligo di indicare – sempre nell’anzidetto quadro “RW” – la consistenza media delle posizioni individuali di previdenza complementare organizzate o gestite da società ed enti di diritto estero. Risultato: ulteriore omissione dichiarativa e mancata presumibile corresponsione dell’IVAFE.

Davvero una splendida intuizione, quest’istanza d’interpello…

Ovviamente, l’Agenzia delle entrate ringrazia per la segnalazione e si premura subito di elencare dettagliatamente nella risposta, tutte le sanzioni previste in caso di omessa dichiarazione e mancato versamento delle imposte eventualmente dovute.

Passiamo, ora, al quesito vero e proprio, che è in realtà suddiviso in due parti:

I)                   Conoscere il trattamento fiscale delle somme erogate dal fondo pensione

II)                 Sapere (nel caso tali somme fossero immesse in un nuovo fondo pensione italiano) se al contribuente venga riconosciuta l'anzianità d’iscrizione previamente maturata nel fondo inglese

Come già anticipato, a nostro modesto avviso, non pare che la situazione sia così tanto complessa da necessitare un interpello in merito all’interpretazione e all’applicazione della normativa di riferimento: evidentemente, trattasi di redditi di pensione e assimilati. Basterà, allora, andare a leggere cosa prevede al riguardo la convenzione – questa volta – Italia / Regno Unito, visto che contribuzione e fondo pensione in parola sono inglesi.

Anche su tale questione, peraltro, l’autore dell’interpello riesce a stupirci… negativamente.

Nella soluzione proposta, si espone una spropositata e lunga elucubrazione in merito all’applicazione della specifica normativa domestica concernente l’art. 13 della convenzione, il quale peraltro fa espresso riferimento agli utili di capitale.

Ma cosa mai potrebbero avere a che fare le disposizioni sugli utili di capitale, in un’ipotesi riguardante delle remunerazioni di tipo pensionistico?

Assolutamente niente! Come infatti non può che rilevare l’Agenzia delle entrate.

Semmai, la norma di interesse è l’art. 18 della convenzione:

“Le pensioni e le altre remunerazioni analoghe pagate da un residente di uno Stato in relazione a un cessato impiego e ogni altra annualità pagata a tale residente, sono imponibili soltanto in detto Stato”. Nella concreta fattispecie: residente italiano, imponibilità in Italia (cfr. ns. precedente contributo: “Pensionati italiani in Portogallo”).

Per quanto riguarda le modalità di tassazione, tenuto conto che le somme sono percepite in unica soluzione, in luogo del regime di tassazione ordinaria troverà applicazione – come noto – il regime di tassazione separata di cui all'art. 17, comma 1, lettera a), TUIR, in base al quale:

“L'imposta si applica separatamente sui seguenti redditi:

-         Altre indennità e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti [rapporti di lavoro dipendente e taluni rapporti assimilati], comprese le indennità di preavviso, le somme risultanti dalla capitalizzazione di pensioni, etc.”

In mancanza di un sostituto d’imposta, tali somme dovranno poi essere indicate dal percettore nel modello unico, quadro “RM”, sez. XII, riguardante i redditi corrisposti da soggetti non obbligati all'effettuazione delle ritenute d'acconto.

Viceversa, non saranno applicabili al caso di specie le norme sulle prestazioni di previdenza complementare. Dette prestazioni – che costituiscono redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente ex art. 50, comma 1, lettera h-bis), TUIR – sono, infatti, tassate in Italia, in forza del rinvio contenuto nell'art. 52, comma 1, lettera d), TUIR, in base alle disposizioni del d.lgs. 252/2005, la cui applicazione è riservata (oltre che ai fondi pensione istituiti in Italia) ai fondi pensione istituiti negli Stati membri dell'UE che rientrano nella Direttiva 2341/2016 e che risultano autorizzati dall'Autorità competente dello Stato membro di origine allo svolgimento dell'attività, in ogni caso, solo per le adesioni effettuate nel territorio italiano e per le risorse accumulate e gestite in relazione a tali adesioni (art. 15-ter, stesso d.lgs. 252 del 2005).

Da tale chiarimento, ne deriva altresì (in risposta alla seconda parte del quesito) che sono escluse:

-         sia l'applicabilità della disposizione che prevede, a determinate condizioni, la possibilità di trasferire la posizione previdenziale dal fondo estero a quello italiano, cui il contribuente intende aderire;

-         sia l’ipotesi di considerare, conseguentemente, l'anzianità dalla data d’iscrizione al fondo inglese uscente.

Pertanto, ai fini della decorrenza di tale anzianità, se il pilota deciderà di iscriversi a un fondo di previdenza complementare italiano, destinandovi il capitale proveniente dal fondo estero, dovrà comunque avere riguardo alla data d’iscrizione presso il fondo previdenziale italiano.

Quanto al trattamento tributario nazionale relativo alla posizione che il contribuente maturerà presso detto ultimo fondo di previdenza complementare italiano, non potranno evidentemente che applicarsi le norme vigenti in Italia, in materia di fiscalità della previdenza complementare (circolare Agenzia entrate N. 70/E del 2007).

L’insegnamento che si ricava da questo disastroso interpello è dunque il seguente: quando non si conosce la normativa, meglio rivolgersi a chi la conosce, piuttosto che pensare di ricevere una “facile risposta” dall’Agenzia delle entrate, tramite interpello. Non solo perché non è questo lo scopo di tale strumento, ma soprattutto perché si potrebbe creare un danno enorme al proprio cliente.

Fonte Immagine: Foto di InsightPhotography da Pixabay



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