Terra
Claudio Monnini "burnt sienna" olio acrilico e caffè su tela 50 x 40 cm 2013

Terra

Visto da lontano, nella luce accecante, l’uomo non staccava la sua sagoma nera dall’ombra del vecchio ulivo; sembravano una cosa sola, lui e l’ombra nera. Il vecchio ulivo era poco meno di un rudere, un pezzo di legno provato da mille anni di cicatrici e solchi, e ormai buttava le foglie metalliche e contratte solo da un mozzicone di ramo.

Visti da lontano, l’uomo-ombra e l’ulivo, erano una strana scultura, posta su un grande piedistallo; un vassoio rettangolare di terra color ruggine scura in una piana arida e giallastra.

L’uomo, guardando meglio, stava accovacciato su se stesso nell’ombra, stringeva un po’ di terra cupa tra le mani e la lasciava sfarinare a terra, assorto.

Teresa si avvicinò cauta, come usa in campagna; se avesse avuto la coda l’avrebbe tenuta alta e l’avrebbe fatta scodinzolare timidamente, a dimostrare che non aveva “intenzioni”, se non la curiosità di mettere a fuoco, nel fuoco della canicola, quell’ombra assorta, e si preparò a salutare, come usa in campagna, l’uomo sconosciuto.

“buongiorno!” disse quando si trovava a dieci passi.

“buongiorno” sospirò ruvido l’uomo con un suono che aveva l’odore di ferro acre di quella stessa terra. Poi si girò guardando avanti, come per continuare un lavoro importante, come per parlare con qualcuno che non si poteva vedere.

“bisogna amarla” disse senza guardarla “vede, per dieci anni l’ho accarezzata, l’ho baciata, le ho fatto conoscere il fuoco, l’ho pettinata con le mie mani, ci ho dato il nutrimento, ho rivoltato ogni zolla e portato via ogni sasso, io, io lo sapevo…” mentre parlava con una mano sgranava la terra grassa, e con l’altra, rugosa, polverosa, sporca, bellissima, disegnava l’orizzonte facendo planare la mano come un gheppio.

“è sua?”

“io, io sono suo, forse ora è mia pure lei… niente ci cresceva, ed io all’inizio pensavo che non ci potevo niente, ma invece, la guardi ora…”

Effettivamente il tono cupo e rossiccio di quella terra sembrava far parte di un altro paesaggio, in quella piana lunare, e veniva da pensare che qualcuno, per burla, avesse sdraiato un grande tappeto di lana su quel pavimento battuto.

“Ma ora le mostro la cosa più bella” dal basso, dalla sua posizione raccolta, le rivolse uno sguardo lucido, nero, lontano e invadente a un tempo. “si abbassi come faccio io, e guardi in questa direzione” Si mise carponi come un indiano ad ascoltare il suolo, lei, esitante, lo imitò. Aveva sete, e la vicinanza con l’odore della terra sudata, col respiro caldo del terreno, non l’aiutava a imitarlo.

“li vede?” disse

“cosa devo vedere?”

“la vita, nessuno ci credeva, avevo ragione io, l’amore aveva ragione”

Improvvisamente notò la cosa, quella che stando in piedi non si vedeva, che sembrava la grana mista del terreno.

Nel controluce un po’ radente, come goccioline, milioni di piccoli steli di un verde accecante ricoprivano le zolle come la peluria infantile su un braccino abbronzato pettinata dal sole.

Era uno spettacolo insopportabilmente forte e tenero, e scoprì che stava piangendo, in silenzio, come il contadino.

Aveva sete, e stava versando dagli occhi la poca acqua che aveva, su quel terreno, come a benedirlo, come a ringraziarlo, e pensò alla sua vita, ed ebbe ancora più sete.


Milano, 16 maggio 2009

Per visualizzare o aggiungere un commento, accedi

Altre pagine consultate