TUTTO E’ CAMBIATO, IL LAVORO NO: SPUNTI PER UN SUO NUOVO RILANCIO

L’impressione è che rispetto alle eccezionali trasformazioni del sistema sociale, produttivo, tecnologico e geopolitico - capaci addirittura di frenare bruscamente la globalizzazione - il mondo del lavoro stenti a tenere il passo del cambiamento, replicando sé stesso secondo vecchi stereotipi non più attrattivi né per i lavoratori né per le imprese.

 L’assenza di valide alternative “plug and play” fa il resto, trascinando avanti le prassi degli ultimi cinquant’anni. Il problema è che questa inerzia si verifica mentre, da una parte, cresce la distanza tra le imprese e le loro risorse, dall’altra, si riduce sempre più la produttività e la motivazione delle persone a sentirsi realmente parte di un progetto, qualsiasi esso sia.

Insomma l’impressione è che tra lavoratori e imprese sia saltato quel “patto di ingaggio” che tante reciproche soddisfazioni aveva prodotto in passato: le rispettive esigenze sono profondamente cambiate e si fa fatica a capirsi, ancorati a schemi concettuali del ”lavoro” ormai desueti ma vissuti da tutti - è questo il problema di fondo - come ineluttabili.

Se l’impressione è fondata, occorre ragionare in fretta sulle chiavi con cui scardinare questo sistema: chiavi che vanno forgiate con spirito innovativo secondo le nuove identità collettive generate dagli epocali cambiamenti in corso.

Non è banale, perché il terreno è pieno di luoghi comuni. Ma bisogna provarci, anche solo per tre “punte dell’iceberg” ben in vista che stanno creando distanza, smarrimento e disaffezione:

1.     le persone - fuori dalle mura aziendali - hanno riscoperto con la pandemia il valore del tempo, della qualità della vita e di cosa significhi avere (o non avere) nuove competenze digitali;

2.     le aziende nello stesso periodo hanno capito che il modello organizzativo e di business seguito sinora per produrre ricchezza va cambiato con urgenza.

Prova ne è il cospicuo numero di aziende che negli ultimi due anni si son fatte trovare pronte con la soluzione giusta al momento giusto e hanno visto letteralmente esplodere il proprio fatturato, e al contrario l’ancor più rilevante plotone di aziende andate avanti nello stesso periodo con sussidi a vario titolo (“booster”, “bonus”, “ammortizzatori sociali”, ecc.). Queste ultime imprese sono ora alle porte del fallimento, ovvero proiettate su una precaria linea di galleggiamento in cui i sussidi sono parte integrante.

3.     Infine, come dimostra un recente studio di BCG[1], negli ultimi due anni non solo la tecnologia ha visto una radicale crescita di nuovi mestieri legati al mondo digitale (es. data engineer), ma ha anche iniziato a stravolgere i mestieri più tradizionali (come marketing e vendite) considerati sino a poco fa ancora al riparo da ogni turbolenza. Con il risultato che circa il 75% dei mestieri è cambiato più dal 2019 al 2021 che nel triennio immediatamente precedente.

Sono questi, non v’è dubbio, dati di fatto con i quali ci troveremo presto a fare i conti.

E allora - senza velleità esaustive rispetto ad un tema così enorme - proviamo a identificare alcuni piccoli spunti relativi alla gestione delle risorse umane che possono concorrere ad accorciare la catena e riavvicinare lavoratori ed imprese, affinché remino sulla stessa barca con maggiore sinergia di quello che oggi è.

 LA LEADERSHIP GENTILE

 Se qualcuno sorride di fronte a questo titolo, dopo cotante premesse, si sbaglia di grosso.

Che piaccia o meno sono finiti i tempi in cui i leader chiedevano “yes man” per assecondare i propri progetti.

Servono ora manager generosi, che abbiano una grande empatia ed attenzione per i sentimenti altrui e siano capaci di far sentire le loro persone a proprio agio alimentandone l’autostima.

Che abbiano rispetto per gli altri, se ne prendano cura e ne comprendano in profondità cosa le loro persone stanno vivendo e il modo in cui possono esser loro di aiuto.  

Per far questo serve una reale disposizione interiore, capace di tradursi in fatti concreti. Gli esperti concordano sul fatto che tali comportamenti aumentano il benessere emotivo, alzano i livelli di energia e quindi di produttività, rafforzano il senso di lealtà e soprattutto favoriscono il gioco di squadra.   

Non basta più la sola capacità di ascolto, considerata come una delle prime qualità (ancora poco praticata) del manager: l’insieme delle caratteristiche appena citate della “leadership gentile” porta l’interlocutore del leader a fare un passo avanti e a entrare in sintonia con lui, a trovare una nuova fiducia e a creare rapporti di partnership.

Certo è un grande impegno per i leader che richiede un nuovo modo di essere prima ancora che di porsi, ma che restituisce loro credibilità assicurando alle persone una maggiore vicinanza “di qualità”.

Che è quello che le persone ora vogliono.

 LA CONDIVISIONE DEGLI OBIETTIVI

 Se fino a poco fa era sicuramente raccomandata, oggi è divenuta indispensabile per due ordini di motivi:

1.     gli obiettivi cambiano repentinamente, e così sarà sempre di più per chi vorrà rimanere sulla cresta dell’onda. Se il team di lavoro non li condivide e non li sente come propri, passo dopo passo finisce la sfida e si torna al meccanismo “attacco il cuccio dove vuole il padrone”. Meccanismo che oggi non è più sostenibile se si vuole una forza lavoro ingaggiata.  

Attenzione: si parla di condivisione e non di informazione, che è evidentemente un'altra cosa (tra l’altro oggi spesso gestita in modo inadeguato perché insufficiente o ridondante).

2.     La definizione degli obiettivi aziendali non può fare più a meno delle idee e delle proposte formulate da chi, sul campo, ha il polso concreto della situazione e del cambiamento in atto. Incrociare allora le linee strategiche dell’impresa con le dinamiche del mercato rappresenta un fattore di successo, sia per la qualità e l’efficacia degli obiettivi, sia per il sicuro ingaggio delle persone che quegli obiettivi hanno concorso a definire.  

 

“Il lockdown - spiega Alessandro Sancino, professore di Management dell'Università Milano Bicocca - ha fatto emergere il desiderio di cercare nel luogo di lavoro una comunità. Per questo motivo il leader di successo è in grado di intercettare la dimensione umana dei dipendenti e guidarli verso un obiettivo condiviso”.

 IL VALORE DELLE COMPETENZE “SOFT”     

 Si è detto che la trasformazione delle competenze professionali riguarderà tutti, e che quelle innovative saranno indispensabili sia nei mestieri tradizionali sia nei ruoli di nuova generazione.

Si tratta comunque di una condizione necessaria ma non sufficiente per ricostruire il mondo del lavoro, a fronte della determinante importanza che vanno assumendo le cd “soft skill” (cioè le abilità trasversali -diverse da quelle tecniche- pertinenti a tratti specifici della personalità che si riflettono in comportamenti ed azioni della risorsa[2]).

Per essere un bravo “data engineer” non basta solo saper le cose né farle accadere: occorre collaborare, interagire costruttivamente con gli altri, scambiarsi informazioni e risultati, saper ascoltare, ecc. E questo vale per tutti i mestieri, che sempre più avranno come primario valore comportamenti e azioni diverse dalle “mere” (si fa per dire) competenze tecniche.

Di singolisti che nascondono le carte e trattano le conoscenze come forma di potere questo mondo del lavoro non ha più bisogno.

 I NUOVI VALORI DI CHI STA ATTRAVERSANDO IL CAMBIAMENTO     

 In questo contesto dinamico che sta modificando in poco tempo ogni paradigma, è evidente che anche i valori di chi sta attraversando il cambiamento siano diversi da prima.

 Fino a poco fa sembrava assurdo immaginare che ai giovani non interessi più il posto di lavoro fisso e sicuro -ammesso che esista ancora, forse l’hanno solo capito prima-, e che i loro valori fossero altri: qualità della crescita professionale, adeguato impiego delle proprie competenze per un continuo arricchimento, esser considerati come protagonisti, informalità, divertirsi sul lavoro (si, divertirsi, che non è in contraddizione con l’impegnarsi a fondo e far bene), ecc.

Un esempio per tutti: lo smart working sta diventando un elemento di flessibilità primario per le persone, che lo considerano addirittura - piaccia o meno - tra i criteri di scelta di un posto di lavoro piuttosto che di un altro. Dall’altro canto le imprese lo vedono ancora con diffidenza, facendo spesso buon viso a cattivo gioco perché la loro organizzazione non si è adattata quanto necessario.

 Lo stesso cambiamento di valori vale per i clienti e di conseguenza per i loro comportamenti d’acquisto: anch’essi, prima che clienti, sono persone, lavoratori e imprese coinvolte in questo processo di trasformazione che hanno nel frattempo fatto propri nuovi valori.

Più in generale, appare allora necessario comprendere e gestire a fondo questi nuovi valori se vogliamo accorciare quella catena tra impresa, loro persone ed anche clienti.

"Per essere attrattivi come azienda, bisogna creare (nuovo) valore nei confronti di tutti: dipendenti, azionisti, clienti. Il solo valore economico, non crea valori, mentre i valori creano valore economico. Al valore economico bisogna sostituire l'idea di arricchimento di tutti gli attori"[3].

 LO SVILUPPO PROFESSIONALE COME LEVA DI RECIPROCA ATTRAZIONE    

 In un mondo del lavoro in cui la vita media dei mestieri si accorcia sempre più e il tempo di lavoro necessario per la pensione si allunga, il nuovo patto tra lavoratore e impresa si sostanzia prevalentemente nel percorrere un tratto di strada insieme, alla fine della quale ciascuno ne esce arricchito. I lavoratori perché sono cresciuti grazie all’esperienza fatta, l’impresa perché ne ha tratto beneficio ed è pronta ad avvicendarli.

 Tracciare sentieri di sviluppo professionale con mete chiare e riconosciute diventa in quest’ottica fondamentale: progettarle vuol dire poi realizzarle, e costringere tutti gli attori in gioco a lavorare per il miglioramento personale e comune.

 Disegnare iter di carriera, pianificare job rotation, elaborare tavole di rimpiazzo e molte altre azioni di sviluppo professionale ridiventano centrali nel patto di lavoro, più che la specifica remunerazione. Quale giovane preferirà trovare un lavoro ben pagato e “poi chissà”, invece che investire collaborando su un progetto con risorse qualificate che arricchiscano rapidamente le sue competenze?

Il mercato premierà sempre più le competenze in sviluppo, mentre penalizzerà quelle che non si aggiornano o si aggiornano troppo lentamente.

 Queste dinamiche hanno un solo faro: lo sviluppo professionale appunto.

IL PROFITTO COME PUNTO DI ARRIVO E NON PIU’ COME “MANTRA”

 Concludendo: ripensare alle logiche che informano il patto di lavoro ha come conseguenza una riflessione sulla società delle performance, quella che impone modelli rigidi di marginalità aziendale a prescindere da tutto il resto.

L’avevano ben chiaro a suo tempo imprenditori illuminati come Adriano Olivetti e Luisa Spagnoli, esempi assai più edificanti di quelli attualmente proposti da Elon Mask ed Elisabetta Franchi: non si arriva a risultati eccellenti per l’impresa se le persone che vi collaborano non solo felici, o comunque incluse con motivazione nel progetto aziendale che le vede impegnate.

Solo così può arrivare il successo oggi. Saltare tappe intermedie, pensando che dove non arriva la persuasione “top–down” ci pensano le incentivazioni economiche, non funziona più.  

  Roma, 26 luglio 2022                             Filippo Antilici de Martini di Valle Aperta     

[1] “Shifting Skills, Moving Targets, and Remaking the Workforce”, MAY23, 2022 By Matt Sigelman, Bledi Taska, Layla O'Kane, Julia Nitschke, Rainer StrackJens BaierFrank Breitling, and Ádám Kotsis , interessante analisi sulla quale richiama la nostra attenzione Antonio Migliardi (Capo del personale di Invitalia)

[2] poi dice che uno usa gli inglesismi…. ma talvolta servono a far sintesi!

[3] Gino Gaspari, Chief Commercial Officer di Cercaofficina.it

Caro Filippo, centrato e puntuale, al solito! la complessità che ci circonrda richiede una condivisione profonda a vari livelli e non vi è dubbio che anche il mondo del lavoro deve evolvere in modelli di "collaborazione" più evoluti. Se mai utili o di successo, i modelli direttivi sono del tutto inadeguati e, come in altri ambiti, esprimono, nella nigliore delle ipotesi, una forma banalizzazione e non di utile semplificazione a risoluzione della complessità.

Caro Filippo, articolo come tuo solito brillante. Oltre alle tante e corrette osservazioni fatte aggiungerei che stiamo assistendo, o per lo meno è ciò che io percepisco, ad un certo "ribilanciamento di potere" tra il datore di lavoro/leader ed i propri collaboratori. In sintesi, lo stile direttivo puro non trova più dall'altra parte ascolto e, mai come in questo periodo, si assiste ad esodi di massa dalle aziende che non sanno capire che questo modello manageriale (se mai ha funzionato) di fatto non è più tollerato. A questo si aggiunge la riflessione che la minore presenza fisica in azienda inevitabilmente allontana le persone dall'azienda stessa in senso emotivo/sociale, per cui cambiare lavoro è assai meno traumatico di prima e le barriere all'uscita sono di conseguenza minori. Insomma, il famoso posto fisso di Checco Zalone è sempre meno attuale, le persone (specie le più giovani) non hanno remore nel cambiare lavoro e se non si capisce cosa vuole il "cliente" (regola numero 1 del marketing e sempre valida) è assai difficile avere successo. D'altronde le statistiche parlano chiaro: circa un terzo dei lavoratori a livello mondiale sta pensando/pianificando di cambiare lavoro, fenomeno mai visto negli ultimi decenni..

Concordo su tutto, il mondo del lavoro è cambiato e la pandemia ha accelerato questo processo...L'obiettivo delle nostre aziende è accogliere questa evoluzione, e continuare a crescere per dare ricchezza, soprattutto emotiva, alle persone che verranno in contatto con noi. Grazie Filippo

Nell'azienda dove ho lavorato per oltre 20 anni, una multinazionale nel settore delle comunicazioni per evidenti problemi di leadership, chiesero ai vari team di raccontare la loro esperienza con i rispettivi leader. Vennero prodotti video, slides, storytelling, etc. e il mio ufficio venne incarico di assemblare tutti i lavori per la presentazione che sarebbe stata fatta. Il primo lavoro era un video e la frase di apertura era la battuta del film " Il Marchese del Grillo" - "Io sono io e voi non siete un ...." Questa era in linea generale l'idea che i team avevano del loro leader e purtroppo era una triste verità. Ne parlo con consapevolezza perché ho lavorato per alcuni anni in una società e gestivo un pool di segreteria. Ho assistito in questi anni alla nascita di tanti piccoli capi o capetti arroganti, presuntuosi e scarsamente competenti. Ho lottato contro il dilagare di cattive pratiche gestionali, purtroppo con scarsi risultati. Quando sei sola l'unica cosa che può accadere è che ti mettano alla porta.

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