Un sacerdote, un uomo e un sorriso

Un sacerdote, un uomo e un sorriso

Non conoscevo don Mauro. L’ho incontrato così poche volte che neppure me le ricordo: forse una benedizione casalinga in vista del Natale, forse una delle rare messe a cui ho partecipato negli anni in cui ha servito come prete nel paese brianzolo dove sono nato e ho frequentato scuole, oratorio e chiesa come cattolico, ma avendo poi cambiato città e perso per strada l’assiduità con la messa (ma, credo, mai con Dio…). 

L’ultima volta però me la ricordo: accompagnata mia madre a una funzione religiosa dopo il lockdown dell’anno scorso, prima della messa ho bisogno… del bagno e vado in sagrestia. Trovo don Mauro, che gentile mi indica dove andare. Non riesco tuttavia ad aprire la porta e lui arriva, affabile, e mi si rivolge bonario, sorridente: “E sì che sei anche giovane…”. Sorrido, gli do ragione, e lo ringrazio. Soprattutto per il giovane (aiuta la mascherina a celare l’età… uno dei pochi portati positivi di questa tortura che ci è caduta addosso), che, ahimè, non sono: tanto è vero che ricordo un altro parroco ripassando accanto alla sagrestia, dove per alcuni anni sono stato tante volte, come chierichetto. Altri tempi, un altro secolo, diverse personalità…

Mi ha colpito sapere a marzo che tutti i preti della parrocchia erano positivi al Coronavirus (anche se non lo si poteva escludere dato il servizio che svolgono), e, quando ho appreso che don Mauro era stato ricoverato, mi è venuto spontaneo rivolgergli un pensiero. Che è poi diventata una preghiera saputo del peggioramento delle sue condizioni. Mi ha quindi rattristato che al suo momentaneo “recupero” era seguito l’aggravamento delle sue condizioni, fino alla drammatica notizia che non ce l’aveva fatta. Lui come tanti altri malati che ci hanno lasciato in questi mesi, certo. E, come per gli altri anziani vinti da questo male, mi è venuta rabbia al pensiero che, se invece di dare tante dosi a persone che non ne avevano urgente bisogno (e non parliamo dei cosiddetti “furbetti del vaccino”…) le avessero destinate tutte e subito ai soggetti davvero a rischio, forse anche a lui sarebbe stata risparmiata questa ingiusta via crucis, terminata (e non a caso, io penso), dopo i riti pasquali.

Nei giorni precedenti la fine, lo immaginavo solo, senza i suoi abiti talari, come tutti gli intubati coperto con un solo indumento, supino e poi girato di schiena: una, dieci, cento volte nel mese della sua agonia. Solo, mi rincuorava saperlo affidato alle cure ammirevoli del personale medico e infermieristico dell’ospedale di Vimercate, loro come tanti, in Italia e in tutto il mondo, impegnati a strappare dal dolore e dall’angoscia i malati di Covid. Solo, mi consolava saperlo raggiunto, avvolto, cullato - come tutti i malati nelle sue condizioni - dal pensiero e dalle preghiere di tante persone: fedeli, congiunti, amici o semplici conoscenti. Chi più e chi meno vicini a chi sta affrontando ovunque nel mondo le conseguenze peggiori del contagio. Chi più chi meno legati e grati ai propri cari per un ricordo, per un aiuto, per un gesto, per un momento, per una parola buona o di consolazione, come credo ne abbia dette tante lui, in qualità di sacerdote certo, ma soprattutto in quanto uomo. O, come me, che lo ricorderò anche solo per una battuta e un semplice sorriso: che raccontava meglio di tutto chi era don Mauro Radice.

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