Una convinzione e una speranza per il futuro dei giornali (e il nostro).
Si torna periodicamente a parlare della scomparsa dei quotidiani. Il veterano del NYT Dean Baquet pronostica in questa intervista una sopravvivenza di cinque anni. La penalizzazione generale inflitta in questi anni alla stampa da parte degli investitori di pubblicità è sbagliata. È indubbio che le readership dei quotidiani in questi anni si siano dimezzate: dal 2013 al 2018 il Corriere della Sera e La Repubblica hanno perso rispettivamente il 40 e il 45 percento dei loro lettori, le testate che hanno sofferto di più della loro stessa concorrenza nel digitale e di quella più generica di altre fonti digitali di informazione nazionale. Nello stesso periodo il calo è stato molto meno marcato per i quotidiani areali o regionali, che hanno registrato differenze negative intorno al 30%, con tenute esemplari come quella de Il Gazzettino in Veneto, che ha perso “solo” il 21% di lettori. Mentre avvengono epocali spostamenti di audience dalla carta al digitale, i primi 15 quotidiani italiani vantano in Italia una diffusione che varia tra le 40 e le 280.000 copie, sono ancora uno strumento di servizio importante sul territorio per una fetta di società influente, e certamente offrono ad un investitore un contesto premiante per l’impatto della sua pubblicità. Che poi gli introiti pubblicitari non siano più sufficienti oggi a coprire i costi industriali di un quotidiano tradizionale è una questione di natura gestionale dell’editore, da cui la responsabilità di non aver agito per tempo a creare le ragioni di una riconversione graduale della produzione di informazione multi-canale, con i relativi investimenti tecnologici, di competenze e necessari interventi sul ruolo dei giornalisti, e le relative barricate sindacali che hanno promosso cause insostenibili di fronte allo tsunami digitale. Perciò, nella prospettiva di una scomparsa dei quotidiani, è utile esprimere una convinzione e una speranza.
Partiamo dalla prima. Se la mia fosse un’azienda che investe in pubblicità riconsidererei la possibilità di pagare un premium per farla a tutta pagina a diverse decine di migliaia di persone che riescono così a vedere, e ricordare, la mia campagna, diversamente dalla scarsa qualità, affollamento, confusione e invadenza che caratterizzano quella digitale. Le cose più importanti che oggi un editore della stampa potrebbe fare a riguardo del contributo pubblicitario che può dare ad un’azienda, sono quelle di argomentare la qualità che apporta su determinati target nella carta, anche nel valorizzare nel digitale la propria identità di operatore d’informazione, e come fare pubblicità nel suo contesto premi anche la sicurezza e la qualificazione dei brand comunicati, rispetto al profluvio di fake-news che stanno inquinando il mondo attuale. Se però nel digitale le promesse di un’informazione di qualità e la difesa di contesti meno affollati a favore della pubblicità vengono meno da parte di un editore tradizionale, perché si danno notizie in quantità che derogano alla linea editoriale per creare più pagine da infarcire di banner anche in modo programmatico, è difficile sostenere una tale promessa con gli investitori. Le notizie di un grande quotidiano tendono ad omologarsi nella marmellata di informazione che affolla la Rete, tra quelle scandalistiche, video curiosità e native advertising con contenuti presi in prestito. La difesa e valorizzazione del proprio patrimonio nel digitale, e per quello che ne resta nell’ambito tradizionale, è un aspetto chiave per un editore tradizionale, che ha consentito a importanti testate internazionali di passare da un modello free sostenuto pericolosamente dall’equazione “più pagine viste-più pubblicità”, a quello che prevede l’accesso parziale o totale a pagamento ai contenuti. La rincorsa iperbolica spinta dall’ad-tech per un editore tradizionale della stampa nella sua declinazione digitale è un modello che adempie allo scopo di sopravvivere in un’era di transizione tra i due modelli, ma che ha il potere di svilire e annullare il valore intrinseco che può mettere a disposizione dei propri utenti-lettori e degli investitori di pubblicità. Entrambi non percepiscono più una differenza con il leggere una notizia di Google News, o nel proprio wall di Facebook, e posizionare il proprio brand a fianco di una fake-news sotto un video di Youtube.
Veniamo ora alla speranza. Il più delicato degli aspetti che il rapporto WFA affronta a favore della pubblicità è quello che riguarda la vita, o sopravvivenza, dei media grazie ai suoi proventi. La questione è particolarmente sensibile, non solo per la ricaduta occupazionale che un andamento negativo della pubblicità causa a quel sistema, ma anche per l’impatto che produrrebbe sul pluralismo delle società democratiche, con editori che chiudono o che per sopravvivere accettano compromessi sulla propria indipendenza. In molti paesi nei quali si sono instaurati in questi anni regimi illiberali e semi-autoritari, da precedenti ordinamenti democratici, è stato condotto un graduale soffocamento della stampa indipendente e della sua funzione di controllo e denuncia degli abusi della politica, effettuando pressione sugli investitori pubblicitari, che in molti di questi paesi sono anche espressione di oligarchie. Un'azienda deve avere a cuore la tenuta democratica di un paese, forse lo scopo di responsabilità sociale più alto a cui può fornire un contributo, al fine stesso della sua possibilità di prosperare in un mercato di persone libere e che dispongono dei mezzi economici per poter scegliere i suoi prodotti. Quindi la speranza è che gli investitori pubblicitari continuino a sostenere questa espressione libera della nostra democrazia, contro coloro che vogliono metterla a tacere e la dilagante disinformazione gratuita.
Un editore della stampa nel contesto digitale di oggi è in uno stretto passaggio che richiede di non derogare alla propria identità, anzi operare ed investire per riaffermarla ai lettori e agli investitori, introdurre l’accesso a pagamento alle notizie, qualificare i contesti pubblicitari per garantire visibilità agli annunci, e far tornare i conti tra ricavi e costi nella fase di transizione, con un’inevitabile sensibilità ai secondi. Più facile a dirsi che a farsi, mi rendo conto, ma questa è l’unica strada e opzione alternativa, previa la scomparsa.