UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO -  La compassione e la consolazione

UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - La compassione e la consolazione

In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!». Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì. Questi sono i Dodici che Gesù invò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»( Mt. 9,36-10,8)

 Iniziamo, questa domenica, la lettura del secondo dei grandi discorsi di Gesù, definito “missionario” infatti ci mostra che Cristo invia in missione i suoi discepoli nei villaggi d’Israele: missione che, come ripeterà altre volte, consiste nel predicare il Vangelo e guarire i sofferenti. E, le parole che maggiormente sono presenti: sono compassione e consolazione.

 Compassione

Cos'è la compassione? Quando si è compassionevoli? Chi è l' “Esempio” dell’autentica compassione?

Il vocabolo “compassione” deriva dalla parola latina “compassio” (in inglese “to care”) ed esprime il comportamento sollecito e premuroso nei confronti del dolore altrui. Potremmo tradurre il termine anche in “soffrire con”, infatti, la compassione, non indica la presenza a fianco del malato per offrire consigli, poiché rischiamo che mentre riflettiamo sulla risposta da proporre ci estraniamo dalla sua afflizione, essendo arduo assistere un sofferente. Non è neppure l’attitudine a intuire e comprendere il vissuto del bisognoso d’aiuto penetrando nel suo mondo simbolico per decifrarne i messaggi.

La compassione «è la capacità di sentire e soffrire con la persona ammalata, di sperimentare qualcosa della sua malattia, le sue paure, ansietà, tentazioni, i suoi assalti sull’intera persona, la perdita di libertà e di dignità e la sua assoluta vulnerabilità e le alienazioni che ogni malattia comporta» (E. D. Pellegrino, Ogni malato è mio fratello, in Dolentium hominum 7, 1988, pp. 60-61.) Di conseguenza è la disponibilità a sostenere il prossimo anche sacrificandosi per lui, come ammoniva H. Nouwen: «Nessuno può aiutare qualcun altro senza entrare con la sua persona nelle situazioni dolorose; senza assumere il rischio di soffrire, ferirsi o anche essere distrutto nell’operazione» (H. Nouwen, The wounded healer, Ny Doubleday, 1972, pg. 72).

L' “Esempio per eccellenza” della compassione è “Dio” che inviò nel mondo il proprio Figlio, non per eliminare le afflizioni dell’uomo o per sanare tutte le fragilità, ma per “condividere” la condizione umana, farne esperienza, soffrirla con l’uomo fino alla morte (cfr.: Fil. 2,1-11). Tutta la narrazione biblica è una testimonianza della compassione di Dio nei riguardi della persona. Nell'Antico Testamento, Dio ha condiviso la sofferenza del suo popolo: «con affetto perenne ho avuto compassione di te» (Is. 4,13). (Passi biblici relativi: Gen. 16,11; Es. 3,8; Dt. 32,36; Gdc. 10,16; 2 Re 13,23; 2 Mac. 7,6).

Anche il Signore Gesù ha vissuto l'esperienza intima della compassione, descritta dai vari evangelisti mostrandoci i Suoi sentimenti. Vedendo le folle stanche e sfinite “ne sentì compassione” (Mc. 6,34); di fronte alla morte di Lazzaro “si commosse profondamente” (Gv. 11,33) e non rimandò nessun infermo senza avergli elargito la sua compassione (cfr.: Mt. 15,22; 17,15; 20,30-31). Inoltre, nel Vangelo, è presente il termine greco "splanchnizomai" che possiamo tradurre con "provare qualcosa nelle proprie viscere" (cfr.: Mt. 9,36; 14,14; 15,32; Mc. 10,51; Lc. 7,13; 13,12; Gv. 11,36). Il vocabolo “splaghnòn” indica anche le interiora, le viscere…, e la Bibbia parla di “viscere di misericordia” di Dio. Anche oggi, nella lingua italiana, troviamo traccia di questa derivazione nel linguaggio embriologico (splancnopleura, plancnocranio…).

La “compassione” è dunque il “prendersi cura” e il “prendersi a cuore” l'altro!         Nell'ambito sanitario questo atteggiamento, stravolge l’abituale rapporto operatore sanitario-paziente e la metodologia di accompagnamento del malato poichè richiede di trasferire l’ interesse dalla patologia o dalla terapia alla persona. Molti, clinicamente "guariti", si riconoscono feriti, ancora “malati” ad un livello più profondo, poichè non sono stati presi in adeguata considerazione dagli altri: non è stata riconosciuta la loro reale situazione, non si è prestata attenzione alle loro sofferenze ed emozioni. Talvolta, alcuni malati, non saranno “guariti” ma si riconosceranno “trasformati” avendo sperimentato la compassione. Ciò avviene mediante la presenza perspicace e articolata del medico, dell’ infermiere, dello psicologo, del sacerdote... E, anche quando non notiamo risultati terapeutici, tutti possiamo divenire “strumenti della compassione di Dio”. Osserviamo il rapporto di amicizia tra due persone. L’autentico amico è colui che afferma: «Anche se io non so cosa fare, tu puoi essere sicuro di una cosa: io sono con te. Ogni volta che tu avrai bisogno di qualcuno, non importa in quale momento o in quale luogo, tu puoi contare su di me». Ma per raggiungere questo elevato obiettivo dobbiamo ascoltare, comunicare che vogliamo ascoltare, conoscere una storia cioè una persona. E, “ascoltare”, significa “prendere sul serio l’altro”, e di conseguenza, porci accanto a lui con “deferente rispetto”.

 Consolare

Anche il consolare è “un dono di Dio” come risposta alle situazioni umane di desolazione essendo Lui ad agire nel cuore dell’uomo, manifestando quello che egli è: “consolazione infinita”.

Cosa significa “consolare”? «Il “sostantivo consolare” e il “verbo consolare” sono la traduzione italiana rispettivamente delle parole greche “paraclesis” e “parakaleo” che significa anche incoraggiare, esortare, confortare, procurare gioia a una persona o a una comunità che si trovi in una situazione umana di tristezza, angoscia, desolazione. Consolare significa, perciò, compiere un gesto di carità concreta verso una persona o più persone che si trovano nell’afflizione. Non a caso nella plurisecolare tradizione della Chiesa “consolare gli afflitti” è sempre stata considerata un’opera di misericordia suggerita a tutti i cristiani» (B. L. Papa, Il ministero della consolazione, in Insieme per servire, 98/2013, pg. 14).

Un “essenziale” testo di riferimento è la seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi. Esaminiamo alcuni passaggi. «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale vi dà forza nel sopportare le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda: sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione» (1,3-7).

Nella Lettera è evidente che l’origine della consolazione è il Padre, ma dopo aver vissuto l’ esperienza della consolazione di Dio, anche noi diveniamo “collaboratori” della consolazione dell’Onnipotente. San Paolo, dopo molteplici afflizioni, ansie e preoccupazioni, afferma di essere beneficiario della consolazione di Dio, perciò è “abilitato da Dio” a consolare. Nel caso particolare, Tito era giunto in Macedonia da Corinto per annunciare all’ “Apostolo delle Genti” “buone notizie” sul successo della sua opera di correzione di quella comunità (cfr.: 2 Cor. 7.4,6), e ciò aveva procurato a Paolo gioia e conforto.

Pure noi, a seguito di esperienze di consolazione del Padre Celeste, possiamo con autorevolezza consolare come afferma Paolo commentando la visita di Tito (cfr. 2Cor. 7,4-9). E' così che Dio si avvale di noi; ci offre l'esperienza di conforto nelle difficoltà per trasmettere ad altri lo stesso incoraggiamento. Le nostre parole ai sofferenti, allora, non saranno “banali consolazioni”, ma il frutto dell’esperienza “di afflitti e di consolati”. Dunque, l’essere consolato e il consolare, vanno ricondotti alla “Grazia di Dio” operante in noi mediante Cristo che consolando a nome del Padre, si manifesta come il “Dio della consolazione” (Rm. 15,5); infatti con la sua risurrezione ha arrecato sollievo a tutti gli uomini!

Paolo, evidenzia dunque che cos’è “la consolazione divina”. Lui, abbiamo affermato, fu consolato da Dio “essendo stato liberato”, cioè salvato da un minaccioso pericolo, e riferendosi alla comunità di Corinto parla del suo apostolato spesso intessuto di afflizioni e di sofferenze. La “consolazione divina” offre forza d’animo, lucidità e totale consapevolezza nell’affrontare le varie situazioni dolorose dell’esistenza!

Ma, la consolazione che noi doniamo, è congiunta a una “profonda comunione” con Cristo crocefisso e alla effettiva partecipazione alle Sue sofferenze. E’ la comunione profonda ed autentica con il Signore Gesù che ci autorizza a consolare l’altro! Per questo non sono rilevanti le parole o le argomentazioni, ma la “comunione con il Maestro”. Tutto ciò vale anche per lo Spirito Santo definito il “Paraclito”: colui che trasforma la desolazione in letizia e la tristezza in gioia.

Da quanto affermato deduciamo che l’esperienza della consolazione necessita della preghiera e dell’invocazione; un’orazione per noi personalmente in quanto già soggetti della consolazione di Dio e per chi consoliamo. Chi ha vissuto periodi complessi, se ha saputo fare tesoro dell’esperienza della consolazione divina, è di enorme supporto al fratello nell’ invocare Dio “come consolatore”.

Questa annotazione di papa Benedetto XVI riassume ciò che sinteticamente abbiamo affermato: «L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la con-solatio, la consolazione dell'amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza» (Spe salvi, n. 39).


 

Domenico M.

Ambasciatore Erasmus+/eTwinning scuola. Innovare la didattica si può e si deve. Ogni bene.

1 anno

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