VIAGGIARE IN MAROCCO
C’era una volta in Marocco…
Il Marocco è una terra che non lascia indifferente neppure lo scettico incallito, quello che cerca per forza di distinguersi, quello che cerca un motivo per non essere d’accordo. È una terra dura, come la strada che da una parte all’altra del deserto arido conduce al certo, al prestabilito, al sicuro.
Il Marocco è pura adrenalinica scoperta dei 5 sensi, e anche del 6º: apre le frequenze e le sintonizza sulla scomodità, sulla mancanza di certezza, sulla condivisione dello spazio vitale.
Non siamo gli stessi dopo il Marocco. Veniamo sfidati, incitati, spinti ad incavolarci, ma anche accolti, lodati, riempiti di sorrisi.
Come tutte le terre che vivono di contraddizioni, la ricchezza del Marocco sta nel perfetto bilanciamento degli opposti, che lo ha reso una meta popolare sinonimo di splendore culturale e anche di apertura dei confini geografici, mentali e soprattutto personali.
Il mio racconto sarà proprio così: personale e ricco di contraddizioni, scegliendo con cura le parole che possono aiutarci a contestualizzare e dividere in capitoli emozionali tutta la mia esperienza. Quella di una viaggiatrice che ha amato e rigettato il Marocco con la stessa intensità visiva ed energetica che la terra restituisce a coloro che la visitano, ma con la certezza che in questo luogo sabbioso ci rimetterà i piedi una volta ancora. E poi un’altra. E poi un’altra…
DENSITÀ
Il primo bicchiere è gentile come la vita,
il secondo bicchiere è forte come l’amore,
il terzo bicchiere è amaro come la morte.
Il profumo è così forte quasi come se la forza di una calamita si fosse trasformata in un aroma di particelle che viaggiano nel tempo e nello spazio fino a raggiungere il naso. Le senti a distanza, e quasi decidi dentro di te che non ha proprio senso cercare di rimandare quell’attimo. Come quando sai perfettamente che una cosa è tanto sbagliata quanto inevitabile, e quindi tanto vale cedere subito e vedere cosa succede. Lo portano in eleganti e roventi vassoio d’argento intarsiato, serviti assieme ad una raffinata teiera dalla forma seducente e inerpicata e dei bicchierini che sembrano degli shot… con l’unica differenza che non puoi ancora toccarli e che non puoi mandarli giù in un sol sorso.
Spetta al capofamiglia avvicinarsi al tavolo rotondo del soggiorno e prendere in mano la teiera, per quello che sarà un momento solenne. Spetta a lui, in pratica, prendersi cura delle persone nella stanza, che hanno pari dignità di quanta possano averne dei discendenti di case reali, o dei guru dell’estremo Oriente. Al pari di uno chef alle prime armi, l’atto del versare richiede una concentrazione e una precisione certosine. Non puoi sbagliare, non puoi abbassare troppo il braccio e né alzarlo con il rischio di rovesciare tutto. Devi stare alla giusta altezza, circa 40 cm, per goderti il panorama della cascata color oro che fa centro nei bicchierini colorati, lasciando una schiuma soffice e solleticante. Il rumore é di quelli che ti avvolgono, mentre l’acqua continua a salire impetuosa verso il bordo. E quando si ferma, non lo fa in maniera blanda. Ma rampante, spumosa, unica.
Nulla è piatto in Marocco, neanche la schiuma del the alla menta che viene servito nella sua sontuosa cerimonia di accoglienza dei nuovi arrivati. È una schiuma densa e carica di significato, perché è non convenzionale e non è lasciata al caso.
Atay Naa Naa, questo il nome della cerimonia del The alla marocchina, che in questo Paese viene praticata ogni giorno dalle famiglie e anche come simbolo dell’accoglienza dei nuovi arrivati. Rappresenta l’espressione più raffinata dell’ospitalità marocchina, quasi al pari della Cina. D’altra parte, il the che viene utilizzato come base per la composizione della bevanda zuccherata alla menta è proprio il tè verde cinese, per la sua freschezza e per le sue immense qualità dissetanti e drenanti.
Ma non sarebbe un the particolare se, in aggiunta alle foglie profumate e sciolte libere in infusione nell’acqua bollente, non venisse aggiunta una particolare menta fresca marocchina chiamata Naa Naa, che viene venduta in bastoni di plastica in tutti i mercati delle Medine.
Il silenzio che avvolge il rituale del the alla menta è raro e prezioso, in un Paese che ha fatto del caos organizzato la sua macchia distintiva tra i turisti di mezzo mondo.
Si viene in Marocco per lasciarsi trasportare dal caos, dai rumori, dai movimenti anarchici, dai colori rampanti e inerpicanti sulle pareti, dalle architetture labirintiche e anche dai suoi sapori.
Il sapore dolce è denso, quasi insolente. A ricordarci di lasciare andare le nostre perfezioni (e percezioni) patinate e abbracciare la ruggente anarchia di una terra dal color rosso passione. Eppure… nel momento del the, tutto diventa improvvisamente ovattato, sacro.
Quando l’infusione di the e acqua bollente è pronta, il capo famiglia assaggia e zucchera direttamente la teiera, aggiungendo la menta fresca marocchina dall’aroma pungente. Si può già avvertire l’“errouh“, “l’anima” del tè” in arabo, ovvero la parte migliore dell’infuso, libera ormai dalle foglie per eliminare l’amaro. Dopo qualche altro minuto, il the è finalmente pronto per essere versato. Dall’alto, come tutte le anime potenti, senza possibilità di errori, come solo i re devono essere.
Quando lo assaggi pensi che sia troppo dolce. Lo pensi per forza: lo zucchero in Marocco è servito ancora in zollette, alcune anche di dimensioni che superano i 3-4 cm. Infatti le prime volte l’ho preso amaro, io che non metto nemmeno il dolcificante nel caffè. Beh, questa ribellione recalcitrante legata alle proprie abitudini non durerà molto: il the è buono, dolce, troppo, ma ti parla la lingua del Paese che stai visitando. E assieme ai biscotti di canditi, frutta secca e miele, diventa una dichiarazione d’amore.
Il mio te alla marocchina, negli ultimi giorni spesi a Marrakech prima di tornare in Europa, era ancora più zuccherato di prima.
SPAZI CONDIVISI
Shokran. Grazie. Scendo dal taxi un po’ scocciata. Nonostante il mio lavoro perennemente always on, sono una persona piuttosto riservata quando si tratta di dialogare con le persone. Sono socievole, ma non svelo tutto di me, quasi a voler proteggere alcune zone d’ombra che mi piace illuminare quando decido io.
Il mio viaggio a Marrakech è accompagnato da un caldo davvero bestiale, uno di quelli che non ricordavo sulla pelle dopo quasi 3 anni vissuti nel clima stranamente temperato delle Isole Canarie. Eppure, la sensazione è davvero piacevole. Mi sento libera di indossare solo uno strato a separare la mia nudità da quella dell’ambiente esterno, e questa sensazione mi dà leggerezza. Per quanto riguarda il resto, ahimé, non posso dire lo stesso. Ma come si permettono tutte queste persone di toccarmi, di tirarmi per la camicia, di prendermi la mano?
Il Marocco – lo scoprirò a breve – è così: non vieni mai veramente lasciato stare. Non sei libero di muoverti o parlare, che improvvisamente vieni circondato da un’azione comune e organizzata di bambini dai volti disarmanti che ti vendono fazzoletti sciolti o accendini colorati, da donne con il velo e le mani ricche di un book fotografico per l’henné, dai trasportatori con i carretti pronti a montare su le tue valigie e accompagnarti nell’hotel più vicino, da motorini che sfrecciano a 1 millimetro di distanza dal tuo naso sbattendoti contro il muro e dalle auto che si muovono in direzioni a te incomprensibili ma che evidentemente funzionano.
E poi lo smog… che accoglie perennemente chi decide di visitare il Marocco ovunque vada, specie misto all’afa imperante di Luglio, al profumo del pane fresco appena sfornato e al sentore di pollo speziato.
Mi muovo in direzione della casa, cercando di schivare il tutto come in una sessione di Fortnite. Dopo aver detto NO a circa 10 persone che mi chiedevano in quale hotel alloggiassi per vendermi tutto ciò di cui avevo bisogno (o pensavano che desiderassi), finalmente arrivo alla porta della casa dove ad attendermi insieme al proprietario c’è un gruppetto di bambini che canta al ritmo di rap arabo e movenze strambe ma buffe. Appena mi vedono si bloccano e si avvicinano parlando delle strane cantilene, almeno fino a quando non regalo loro 1 dirham a testa (10 centesimi) e anche un sorriso di riconoscenza.
Il proprietario di casa è molto gentile. Mi fa entrare aprendomi la porta come un vero gentiluomo e mi fa accomodare su un tipico divano marocchino che circonda tutti i lati del salotto, come è di usanza qui.
Sono stanca e vorrei riposare, ma non è il momento e me ne accorgo subito. Ad attendermi, infatti, l’intera famiglia: due piccoli bambini dagli occhi furbi, la moglie dallo chador elegante e dai colori accesi, il figlio maggiore. E una tavola rotonda e non molto alta, apparecchiata di ogni ben di Dio: biscottini alle mandorle e all’amaretto, caramelle gelatinose, chebakia ai semi di sesamo, tortine di cannella e frutta secca, le kaab el ghazal (“caviglie delle gazzelle”), i makrout dorati con mandorle e miele, i briouats glassati, e la tipica torta da forno m’hanncha o m’hancha, che vuol dire in arabo “serpente” per la sua tipica forma arrotolata. Sinceramente, non ho mai visto un buffet così armoniosamente presentato nella composizione, nei colori e anche nella invitante leccornia generale! Mentre sono ancora affascinata dal banchetto che hanno preparato per il mio arrivo, mi accorgo che siamo tutti in solenne attesa del capofamiglia.
In Marocco, al contrario di come siamo abituati in Italia, spetta proprio al capofamiglia servire una bevanda che simboleggia il benvenuto e l’ospitalità: il the marocchino alla menta. Ed eccolo qui, al cospetto di tutta la sua famiglia, che arriva con un vassoio d’argento brillante per iniziare la cerimonia…
La mia stanza è al piano di sopra. Quando entro, vengo colpita negli occhi ma anche nell’anima dalla miriade di colori e rivoli di forme geometriche e labirintiche. Sono le pareti della stanza, con mattonelle in ceramica colorata, ma anche i pavimenti che calpesto con riverenza togliendomi le scarpe. Sono i ricami dei cuscini e delle coperte. Sono i tappeti color rosso fuoco. E sono le zellige che rendono il bagno alla turca (tipico delle case originarie marocchine) un luogo d’arte inaspettato.
“Quello che è nostro è tuo. In Marocco, lo scoprirai presto, amiamo una cosa più di ogni altra: la condivisione”. Hamza, il figlio maggiore, mi saluta dalla porta con un Bslama, arrivederci, richiudendosi la porta di legno intarsiato alle spalle e lasciandomi sola.
Ma d’altra parte, a giudicare dalla ospitalità di questa meravigliosa famiglia appena conosciuta, “solo” è un termine che per chi decide di visitare Marrakech semplicemente non esiste!
CONTRATTAZIONI
Ok lo ammetto, credo di avere un problema con i tassisti. È come se prima di concedere loro il brevetto avessero fatto le selezioni per quelli più antipatici e strafottenti. E sto usando degli eufemismi al posto di altre parole più precise.
La contrattazione inizia quando ti guardi intorno. Come un cane segugio, il tassista capisce dai movimenti della tua testa che hai bisogno di lui e che potresti potenzialmente essere un pollo da spennare (e qui i polli sono particolarmente amati). Non fai in tempo a muovere lo sguardo per più di un secondo che ti ritrovi circondato da quattro o cinque tassisti alla ricerca di una corsa esclusiva. Sono in attesa che tu decida, ma non in maniera passiva. Se stai parlando già con un collega, infatti, è molto probabile che altri arrivino e ti portino via, con buona pace del primo arrivato che è costretto ad andarsene con nulla in mano. E quando la selezione naturale sembra essersi conclusa, con la vittoria del più impertinente, ecco che arriva il momento tanto esasperatamente atteso: la contrattazione del prezzo.
Una premessa: in Marocco si muovono generalmente due tipi di taxi. Il taxi “normale” e il taxi “deluxe”, che ho soprannominato io così per via dei prezzi che nemmeno in una normale serata a Porto Cervo. Il taxi normale è color sabbia (e anche insabbiato per davvero) e normalmente ha un costo per corsa (se siete in due, pagate comunque il valore di una sola corsa) di 7-8 dirham a seconda della città dove siete. In Euro, è un costo di circa 70, 80 centesimi, quindi davvero molto basso.
“Ai Giardini Majorelle, a circa 2 km. Che prezzo mi fai?”. “Sono 500 dirham”. 5 €? Per una corsa che non ne vale neanche 1?
Ok, niente panico. Sono in Marocco, la patria della contrattazione per eccellenza. E quindi, tocca negoziare.
D’altra parte, in Marocco se sei un turista dovrai imparare a negoziare per qualsiasi cosa, anche per il pane venduto nei banchetti chiusi (una sorta di mini alimentari ma senza accesso, tipo un bancone del bar). Se il pane costa 1 dirham, te ne chiederanno 3. Se una tazza di the costa 2 €, te ne chiederanno 4. Addirittura a Jemaâ El Fna, la famosissima piazza centrale di Marrakech, una signora italiana (italiana!!!) ha avuto il coraggio di chiedermi 4 € per un espresso che normalmente costa 0.70 centesimi. Insomma, dura la vita dei negoziatori.
L’unica maniera per sopravvivere, dunque, è quella di diventare più tosti di loro. Non siamo dei turisti, siamo dei viaggiatori che vivono qui da un po’ di tempo, conosciamo i prezzi e sappiamo dove potreste fregarci, sappiamo dove andare e quando andare. E quindi vinciamo noi. Fine della storia.
ELEGANZE FEMMINILI
Viaggiando tra da Fes a Marrakech, Essaouira e Casablanca si ha la percezione che davvero questo Paese sia composto da un mosaico culturale per niente scontato. Ogni donna decide assieme ai dettami della sua famiglia quale copricapo indossare e ogni città ha delle condotte morali e di completamento più o meno libere.
Passeggiando per le strade di Casablanca, ad esempio, si nota il suo essere araba con forza e imponenza. La città è di un bianco candido, “casa bianca”, appunto, che esplode nella sua perentorietà nel simbolo cittadino – la Moschea di Hassan II, mossa da lembi di mare e vento in poppa. Il candore delle case è di volta in volta impreziosito da qualche immagine o simbolo o anche oggetto che racconta una storia a parte: una scarpa slacciata lasciata andare da un viandante; i resti di una merenda di frutta gettati senza controllo in un cumulo di spazzatura in piena ora d’aria; un murale che racconta la contestazione politica al Re (il Marocco, io stessa non lo sapevo, è una monarchia); un foulard dai colori pastello volato via, di certo ad una turista, perché le donne del posto lo tengono ben fermo sulla testa. Anche se non è obbligatorio indossarlo (sì, avete letto bene), la gran parte delle donne scelgono di tenerlo sul capo nel rispetto della religione e della propria origine familiare. In ogni caso, le donne escono sempre coperte dal polso alla caviglia (per gli uomini dal gomito al ginocchio), in segno di decoro.
Molto diversa la situazione a Marrakech e Essaouira, la prima ormai crogiolo di differenti culture e provenienze geografiche, la seconda località di mare sdoganata da hippie, surfisti e artisti alla ricerca di un posto nel quale esprimere indisturbati il proprio vivere in maniera alternativa. In questi due luoghi, infatti, per una donna occidentale o comunque non praticante è possibile passeggiare indisturbate senza velo, con la sola richiesta di uno stile decoroso (io sceglievo dei pantaloni lunghi o poco sopra al ginocchio e delle camicette ampie che non lasciavano intravedere le forme). Nonostante questo, erano tantissimi i turisti e le turiste che si riversavano per strada in abitini succinti, gambe e seno scoperto, senza per questo venire importunate verbalmente (con gli occhi, tutta un’altra storia ovviamente).
Colori pastello, tessuti di seta, figure leggiadre e piene di eleganza nei movimenti e anche negli sguardi: le donne marocchine erano semplicemente incantevoli ai miei occhi. E indossare lo chador ma anche il burka conferiva loro una regalità che da paladina dei diritti delle donne non mi aspettavo di notare. Erano donne a loro modo emancipate, che si muovevano in gruppo divertendosi un mondo, con in mano sacchetti delle marche più famose (vi ricordate la scena ad Abu Dhabi di Sex & The City – Il film nella quale le donne arabe svelavano i loro abiti firmati sotto il velo scuro? Beh, non mi sembra molto esagerata oggi) e che abbracciavano la loro sorellanza in maniera totale. Ed erano donne la cui bellezza, fascino ed eleganza erano talmente forti che non potevano essere nascoste nemmeno dallo strato più scuro e pesante di seta o pashmina.
Ho amato e rispettato quelle donne, che sorridevano e ti lasciavano passare avanti in fila anche quando non avevi avanzato pretese, che ti davano indicazioni se ti vedevano persa e che si fermavano a tradurre dal francese all’inglese quando non capivi se stavano cercando di fregarti (vi ricordate i tassisti, sì?). Erano donne con i propri problemi, con spirito di adattamento e accettazione più o meno evidente della propria condizione, ma con la voglia di viaggiare, scoprire, emanciparsi. Dinamiche, curiose, profumate.
Erano donne proprio come me. Raffinate nei modi, eleganti nel muoversi, leggiadre nel comportarsi. Non riuscivi a staccare loro gli occhi di dosso, e ti dimenticavi per sempre del copricapo che indossavano, che eliminava completamente le barriere visive.
SCAPPATOIE
Il Marocco non è per coloro che amano scappare. Sono arrivata senza aspettative e anche in maniera un po’ inconsapevole. E con la bellezza espressiva di luoghi selvaggi, soprattutto le strade asfaltate nel bel mezzo del deserto, dove ci siete solo tu e il profumo dei campi di Argan, si è fatto largo dentro di me anche un leggero senso di insoddisfazione. Il Marocco ti sfida, e non c’è modo di evitarlo.
L’aria spesso irrespirabile, la lingua che non conosci e che rende impossibile la comunicazione, il costante tentativo di considerarti niente più che un turista anche quando cerchi di comprendere, rispettare e perfino amare le tradizioni del luogo. Il turbinio di clacson e le sgommate che ti intralciano il cammino. E ancora lo spazio troppo stretto di alcune vie, la vista della povertà assoluta, i problemi intestinali che ti porti dietro per una settimana senza comprenderne bene il motivo. Il fatto che non puoi uscire dopo le 5 di pomeriggio perché viaggiare sicuri in Marocco non è possibile, specie se sei donna, perché loro hanno deciso che funziona così anche se il Paese non è uno di quelli più insicuri che esistono…
Tutte queste emozioni, unite alla lenta capacità di adattamento del mio corpo, hanno fatto sì che mi sentissi intrappolata nelle mie stesse decisioni. Volevo retare per vedere il resto, per perdermi nelle città imperiali, per incantarmi con la città blu del Marocco Chefchaouen, per inebriarmi con il sentore delle spezie piccanti… ma volevo andare via perché non mi sentivo libera di essere me stessa, di esprimere la mia libertà, di rivendicare il mio disaccordo. E tutto per timore di qualche ripercussione, anche senza essere certa che ci sarebbero state.
Questa perenne attesa del peggio, dettato da qualche pregiudizio e malessere fisico, stavano avendo la meglio sulla mia voglia di avventura.
Del resto il Marocco è proprio questo: non dà scappatoie a chi ne ha bisogno. È un Paese da prendere o lasciare, o al massimo da tornarci equipaggiati in maniera differente.
RITORNI
Personalmente, non sono una tipa che si lascia intimorire. E mi sono ripromessa, scegliendo di andare via un mese prima del previsto, di tornarci con maggiore consapevolezza. Alla ricerca di connessioni wifi migliori (una delle tristi condizioni di chi lavora online è anche quella di dover rinunciare a luoghi da vivere quando la situazione non lo consente) e anche di connessioni spirituali più profonde.
Il Marocco accogliente mi ha dato tanto, il Marocco ostile mi ha tolto qualcosa negli istanti in cui l’ho respirato. Ma mi ha regalato anche un’altra chance da portare a casa come bagaglio: quella di affrontare i miei fantasmi interiori. I fantasmi dell’abitudine, del senso di adattamento, della sfida, della mia stessa condizione di donna. Fisici ma anche e soprattutto mentali. Non si torna a casa come si è partiti, ma si può tornare indietro con un souvenir in più: quello della ricerca della propria luce spirituale.
Shokran, Marocco. Non tutte le destinazioni finiscono con un principio di inizio
Vi è piaciuto il mio racconto di viaggio? Vi è venuta voglia di andare in Marocco? Yallah! Andiamo!
Melania Romanelli