2021: la scomparsa della scrittura e il trionfo del video
Le parole scritte non sono un’interfaccia monetizzabile sulla rete: entro quattro anni, Facebook sarà un’esperienza solo video e la scrittura una tecnologia di backend.
“Fatto nel modo giusto, un discorso è molto più efficace di qualsiasi cosa in forma scritta”, asserisce la quarta di copertina di TED Talks, la guida di Chris Anderson (Houghton Mifflin Harcourt, 2016) per il public speaker. TED sta per Technology Entertainment Design: idee che vale la pena diffondere, recita invece il motto (ideas worth spreading). Ciclo di conferenze che si afferma tra gli anni Ottanta e Novanta negli Stati Uniti su iniziativa dell’architetto e designer Richard Saul Wurman (uno dei padri della disciplina dell’architettura dell’informazione), TED è diventato un brand globale con l’acquisizione da parte di Anderson e con la sua idea di riprendere e diffondere i video delle conferenze attraverso YouTube e il sito web di proprietà, a partire dal 2006.
Ma l’esaltazione dell’oralità come mezzo privilegiato di comunicazione di TED non è solo un escamotage per vendere un franchising di conferenze. È una strategia di mercato della narrazione premeditata e globalizzata. In una conferenza (e dove altrimenti?) tenuta a Londra nel mese di giugno del 2016, Nicola Mendelsohn, Vice Presidente di Facebook per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa, ha affermato che entro il 2021, Facebook, oltre a diventare un’applicazione del tutto mobile, sarà un’esperienza del tutto video. La scrittura si avvia al declino dell’obsolescenza, al più una tecnologia di backend. In un mondo digitale investito da un diluvio di informazioni, il modo più immediato per raccontare una storia è il montaggio di immagini in movimenti e audio.
Oggi, il 70% del traffico su Internet è occupato da video, una percentuale che arriverebbe oltre l’80% nel 2020, secondo le previsioni di Cisco. Una generazione intera, quella dei cosiddetti Millennials, sta transitando dalla Televisione a una Rete Televisiva, se è vera la stima di Nielsen secondo la quale la popolazione tra i 18 e i 34 anni ha trascorso nei primi quattro mesi del 2016 21 ore di media a settimana davanti alla televisione e altre 30 su smartphone, tablet e altri dispositivi digitali, con i filmati a occupare la maggior parte di quelle ore.
Nel corso degli ultimi dieci anni, YouTube, fibre ottiche e cavi, e Content Delivery Network (CDN) hanno risolto un problema che nel World Wide Web si esplicitava con una parola che compariva sullo sfondo nero del player durante la riproduzione di un filmato: buffering. Il buffering (letteralmente: tamponatura) era un’interruzione della funzione fatica del contenuto, il momento in cui il canale tra emittente e destinatario si interrompeva, rendendo impossibile la fruizione del messaggio. Sul Web, la predominanza del testo scritto era il risultato di un’artigianalità tecnologica. Sui social media, la rivincita e il trionfo annunciato del video sono il prodotto di una preferenza algoritmica che da una parte modella i protocolli tecnologici dei canali e dei linguaggi di distribuzione dei testi, dall’altra impone le regole di costruzione delle storie e diffusione dei messaggi.
La visibile concentrazione nei fornitori di contenuti del doppio ruolo di fornitori di infrastrutture di distribuzione appiattisce al centro la logica distributiva altrimenti decentralizzata e paritaria del Web e di Internet. Il declino delle reti P2P e l’affermazione di Facebook, Google, Apple, Amazon e Netflix come nuova generazione di broadcaster che trasmettono attraverso le ‘reti di consegna di contenuti’ che essi stessi controllano è il risultato di una vera e propria occupazione delle autostrade dell’informazione, colposamente consentita peraltro dal modus operandi del Transfer Control Protocol (TCP), uno dei due pilastri, insieme all’Internet Protocol (IP), del funzionamento di internet. Per gestire il traffico di dati proveniente da un insieme di reti le più diversificate, ed evitare congestioni a ogni nuovo ingresso di richieste, l’algoritmo di TCP prevede una ‘partenza lenta’ del flusso dei volumi da trasferire, per aumentare poi in progressione l’intensità. Il flusso dati dei video, molto più corposo del flusso dei testi ma anche delle immagini statiche, si avvantaggia di questo meccanismo di velocità di trasferimento in progressione, guadagnando dall’inizio rapidità e occupando spazio a discapito, per esempio, dei clic sulle pagine ipertestuali di un qualsiasi sito di informazione, costrette a un numero maggiore di ‘false partenze’ prima di avviare la progressione di trasferimento attesa.
Poco importa che ricerche come quelle di Parse.ly e del Reuters Institute dimostrino che i navigatori preferiscono interagire con i testi (brevi, medi e anche lunghi), piuttosto che con i video o gli slideshow. La parola scritta è poco flessibile per gli inserzionisti affamati di pubblicità, visualizzazioni e click-through rate: con buona pace di Walter J. Ong, la concentrazione e l’isolamento intellettuale richiesti dall’alfabeto non funzionano in un’ecosistema dove la guerra continua per conquistare l’attenzione dei consumatori si vince con l’arma di distrazione più efficace e monetizzabile. Sovrastimando (manipolando?) i dati sulla resa del video, Facebook dà l’addio alla scrittura a nome di tutti: “un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà”, diceva il poeta.
Versione originale pubblicata su infolet.it il 20 gennaio 2017.