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“I due grandi problemi dell’adolescenza sono: trovarsi un posto nella società e, allo stesso tempo, trovare se stessi” -Bruno Bettelheim-

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Per anni è stato evitato il lavoro con gli adolescenti, perché ritenuti pazienti intrattabili in senso psicoanalitico. Negli ultimi 20 anni però questa visione è mutata, passando dall’essere ritenuta una psicoanalisi di serie B o addirittura infattibile, a dischiudere nuove prospettive nel mondo psicoanalitico, ed aprire la strada alla prospettiva del Campo Analitico (Ferro).

Sempre più autori si occupano di adolescenza, sempre più pazienti adolescenti vengono trattati. Mentre prima la richiesta proveniva maggiormente dall’ambiente familiare, oggi sono gli adolescenti stessi a richiedere una terapia, anche grazie all’aumento dell’informazione che avviene anche tramite la scuola.

Si riscontra una sofferenza più esplicita e più esibita, self cutting, suicidi, hikikomori, per questo il discorso della diagnosi è sempre più importante, anche se effettuare un inquadramento ben preciso a questa età è molto difficile poiché in adolescenza, più che in ogni altro momento della vita, l’individuo sta cambiando e per questo risulta impossibile imprigionarlo così precocemente in una categoria diagnostica, anche se, attorno ai 12-13 anni e 18-20 si annida un maggior rischio di breakdown psicotico.

Da un punto di vista clinico, nel lavoro con gli adolescenti bisogna sempre tenere in considerazione la nostra parte adolescente, prestando molta attenzione però alle risposte controtransferali che possono insorgere.

L’incompiutezza può essere vista come la metafora principe del lavoro con l’adolescente, al contrario del lavoro con gli adulti, il fine di questo tipo terapia è la ripresa dello sviluppo evolutivo che a causa di una crisi dovuta ad una serie di cambiamenti biologici, psichici e sociali, ha subito un momentaneo arresto. Come dice Cahn l’adolescente è sofferente perché non riesce a trovarsi e ha bisogno di essere aiutato a farlo. Questa è sicuramente da considerarsi una grande innovazione per quel ramo di psicoanalisi che si occupa di adolescenza: comprendere la sofferenza, la difficoltà nel riuscire a trovarsi, comprendersi ed accettarsi in questo periodo rivoluzionario di crisi, dove si passa dall’essere e dal conoscersi come bambino con specifiche caratteristiche ad uno sconvolgimento ormonale interno e fisico esterno, che porta ad una trasformazione involontaria con una conseguente sofferenza.

Questo processo di crescita denominato pubertà, che in passato veniva visto come un processo “normale”, al giorno d’oggi è trattato con più riguardo accompagnato dall’importanza che merita ora che si è visto che ci può essere un bisogno di aiuto, in quanto alcuni adolescenti riescono a sbrigarsela soli, ma altri rischiano di rimanere intrappolati in questa mancanza di identità di una base sicura.

Il compito del terapeuta diventa allora molto complicato, deve essere in grado di mettersi al servizio della mente del paziente e imparare ad utilizzare il linguaggio dell’adolescente senza però cadere in giovanilismi inappropriati. Deve essere sensibile e creativo ma in giusta misura, altrimenti il rischio sarebbe di sviluppare una dipendenza troppo forte da parte del paziente.

Due sono i temi centrali nel lavoro con gli adolescenti: il trovare ciò che è già lì e l’accettazione e il rispetto per il non finito.

Trovare ciò che è già lì da un punto di vista clinico è avere la consapevolezza che l’oggetto della scoperta sia già di fronte a noi. In secondo luogo si dovrebbe favorire un processo di soggettivizzazione/individuazione incompleto perché, come detto prima, l’obiettivo non è come nella terapia dell’adulto quello di risolvere i conflitti, ma di sciogliere quegli ostacoli che impediscono la naturale ripresa evolutiva.

Se si riescono compiere queste operazioni l’adolescente potrà vivere una nuova esperienza rispetto a quelle vissute in passato. Tanto più sono state difficili e fallimentari le esperienze pregresse, tanto più sarà difficile il lavoro che il terapeuta dovrà affrontare, in quanto sarà molto difficile per l’adolescente accettare la dipendenza dal processo terapeutico.

Il grosso problema che ha fatto ritenere per anni gli adolescenti pazienti incurabili è proprio questa oscillazione tra dipendenza e indipendenza. L’adolescente è per definizione un ribelle in cerca della sua totale indipendenza e il completo rifiuto di dipendere da eventuali oggetti esterni (genitori o analista) che in questa fase di vita vengono continuamente criticati ed attaccati. Questo perché l’adolescente cerca di distaccarsi da tutti i suoi investimenti affettivi infantili anche come una sorta di difesa nei confronti dell’elaborazione del lutto che dovrà affrontare rispetto all’abbandono della sua parte infantile. Sempre in questa particolare fase l’adolescente tenderà a ripetere in ogni relazione con un adulto, che possa minimante implicare una dipendenza, questa modalità di atteggiamento e ciò avviene anche in terapia. Per questo il terapeuta dovrebbe utilizzare il linguaggio del paziente senza imporre il proprio, prestare attenzione alla modalità del suo funzionamento mentale senza però essere seduttivo, in funzione della relazione che si deve costruire, per questo è importante la teoria del campo analitico. Solo procedendo in questo modo il terapeuta potrà, col tempo, dare a questa comunicazione un senso interpretativo modulato, lasciando sempre spazio all’adolescente per effettuare una controproposta.

L’adolescente ha inoltre bisogno di non sentirsi pienamente compreso, necessita al contrario di avere intorno a sé uno spazio sufficientemente libero e insaturo dove sperimentare le proprie trasformazioni.

In adolescenza il corpo comincia a fare rumore: dai problemi identitari all’assunzione del proprio genere, dalle manipolazioni somatiche all’autolesionismo, dai comportamenti rischiosi ai tentativi di suicidio, dalle somatizzazioni alle malattie, il corpo si colloca al centro dell’esperienza evolutiva e delle diverse problematiche ad essa connesse.

L’adolescenza è, senza dubbio, un periodo complesso di transizione dall’infanzia all’età adulta, complesso in quanto coinvolge la persona nella sua totalità soma-psiche. La velocità nei cambiamenti è sicuramente evidente e spesso provoca un profondo senso di disagio e numerose perplessità nell’adolescente, circa lo stare al mondo, l’esserci e l’esserci con l’altro. Da un lato il desiderio di indipendenza e distacco dalle figure parentali, dall’altro la paura dell’indipendenza e il bisogno di non perdere tale legame.

Questo è il periodo della costruzione di un Io che ha bisogno di trovare la propria identità, ma tale meccanismo è certamente correlato alle esperienze precedenti, alle conquiste avvenute, alla capacità genitoriale di permettere l’evoluzione e la costruzione di un contesto che sia base sicura per la scoperta del mondo esterno.

Solo in questa maniera è possibile l’interiorizzazione delle figure genitoriali e l’andare verso una propria autonomia. Se ciò non avviene, come spiega la Dr.ssa Nicolò, è possibile che avvenga una momentanea interruzione nel passaggio, in quanto “in quasi tutti i casi di rotture evolutive in adolescenza le angosce relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale sono in primo piano a causa dei processi di ristrutturazione dell’identità e della ricontrattazione edipica, tipici di questo periodo, e terrorizzano il giovane e spesso anche i genitori creando una tempesta emotiva enorme”. (Nicolò, 2021). Compito evolutivo di questa fase è dunque la costruzione dell’identità. Questo processo implica l’integrazione dell’immagine del Sé costruita nell’infanzia con un corpo in trasformazione, un eccitamento sessuale e una modifica dei rapporti parentali.

Questi aspetti che nella pubertà erano tenuti scissi, adesso necessitano un’integrazione.

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