Animals vs Wish you Were Here: fratricidio!

Animals vs Wish you Were Here: fratricidio!

Leggo questo articolo su ondamusicale.it - un articolo provocatorio il giusto, di quelli che escono da una serata annaffiata da congruo numero di birre, fatto che se confermato me lo farebbe apprezzare ancora di più - a firma di Ivan Perilli. Non conosco l’autore: mi sono semplicemente imbattuto in un pezzo che sostanzialmente collima con quello che ho sempre pensato di Animals dei Pink Floyd (1977) e che non ho mai avuto abbastanza coraggio di sostenere. (Anche perché, non facendo il critico musicale, non ne avrei avuto proprio il titolo).

Scrivo da fan, io: nel mio curriculum posso mettere solo il fatto di conoscere un bel po’ di album dei PF (se non tutti), e i “magnifici cinque” (cit. sempre Perilli) praticamente a memoria, e di ripassarli di tanto in tanto senza alcuna vergogna. E dato che - sia detto sempre senza vergogna - questo mi ha formato creativamente e professionalmente, plaudo qui alla perentoria sentenza: sì, confermo, Animals è il più bel disco dei Pink Floyd. E le ragioni sono proprio quelle che leggete nell’articolo, precise precise.

Detto questo, però, non posso consentire allo scandalo: secondo il Perilli, Wish You Were Here sarebbe “un album per chi ha paura, per chi fa il romanticone con la chitarra sulla spiaggia o per chi, sorseggiando un bicchiere di vino seduto sul divano di casa, ascoltando Shine On You Crazy Diamond, pensa alle bollette da pagare”.

Leggendo queste parole, lo confesso, ho gridato. Non allo scandalo, proprio di dolore. Per la crudeltà. Per l'empio fratricidio, perché Wish You Were Here e Animals sono parenti stretti. E non mi riferisco solo alla circostanza storica secondo cui sarebbero stati scritti più o meno nello stesso periodo e solo successivamente arrangiati nelle rispettive versioni definitive, ma perché l’impianto politico e sociale dei testi, la schietta violenza delle chitarre e la tavolozza psichica delle tastiere di Wright (Grazie, Rick, ovunque tu sia) sono sia di qui che di lì.

Quello che cambia, in realtà, è l’ingresso della morte di Syd Barrett, che porta i quattro ad abbandonare il concept originale, in parte ispirato a Orwell, e a propendere per il carattere ultralimpido di Shine on You Crazy Diamond e la granitica perfezione filosofica della title track Wish You Were Here, lasciando la sola Welcome to the Machine il compito di far sopravvivere qualcosa dell’impianto iniziale - il futuro disumanizzato, il metallo, la macchina-stato.

Poi va da sé: l’acustica di Gilmour in Animals, una volta lasciata libera, chiaro che avesse bisogno di un altro spazio. E lo stesso vale per l’incredibile piano di Sheep. E accade che un album pensato come recupero e rimorchio, come dilatazione e forse pure fuga dell'aria compressa dal pensosissimo Wish You Were Here, diventi semplicemente unico, iconico, indimenticabile. Feroce come solo il pink floyd sound sa essere.

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