Aprile 1943 - Ancora fischia il vento

Aprile 1943 - Ancora fischia il vento

Stavano lì da che mi ricordo. E quando sei abituato da sempre a convivere con qualcosa, ti sembra normale anche se non lo è. Poi però accadde, nell’aprile del ’43: era mattina e stavo ancora dormendo quando venni svegliato da mio fratello Umberto che, con un volto senza alcuna espressione, mi disse «Si sono portàti Giannino. Stanotte». Sapevamo che non l’avremmo più rivisto e così fu. Avevo 16 anni. Quel giorno la sopportazione divenne rabbia: ci radunammo tra noi ragazzi più per essere sicuri che non mancasse nessun altro che per pensare a cosa fare. Eravamo sgomenti, storditi ma nessuno si sentiva impotente o sconfitto. Di parole da dirci ce ne furono poche e neanche le ricordo ma ci volle qualche minuto per essere tutti d’accordo sul da farsi: andare sulle montagne a parlare con “quelli là” che i tedeschi non li avevano mai potuti nemmeno vedere. Eravamo una decina di ragazzini che stavano disobbedendo agli ordini delle loro madri, che ci volevano in casa a sostituire gli uomini che non c’erano ma servì un attimo a tutti noi per capire che “fare gli uomini” in quel momento significava prendere altre decisioni ché restare a badare alla famiglia, perché quello che era successo a Giannino sarebbe potuto capitare a chiunque di noi, restando a casa a fare la guardia, semplicemente aspettando.Arrivammo sulle colline di Scanzano quello stesso giorno, per parlare con quelle persone che venivano definite briganti dalle autorità, e chiamati di malaffare da chi non voleva rogne. «Uaglioni, ma che vi siete messi in testa? Tornàtevene a casa che chi resta qua fa una brutta fine» ci disse chi comandava. Silenzio. Nessuno di noi si mosse di un centimetro. Lui ci scrutò tutti, uno a uno, prima di avvicinarsi con sguardo minaccioso e dirci: «Vabbuò, allora voi domani pomeriggio alle 4:00 portàteci i nazisti qua sopra. Poi ci pensiamo noi».L’indomani dopo pranzo ci ritrovammo tutti al molo per capire cosa fare, come riuscire in una cosa che ora realizzavamo essere molto più grande di noi, di un gruppo di ragazzini incazzati a morte. Ci guardammo l’uno con l’altro spaesati, a pochi metri da una jeep con sopra quattro tedeschi che fumavano e ridevano tra loro, senza sapere di preciso come agire, quando d’improvviso Arturo - il più giovane tra noi - tirò fuori un temperino e in un lampo squarciò deliberatamente uno degli pneumatici della vettura. In un attimo iniziammo a correre, noi davanti e quei quattro poveri stronzi dietro, fino ad arrivare laddove avevamo concordato il giorno prima. Ad un tratto una voce «Achtung!» ma non erano i tedeschi: “quelli là” spuntarono fuori dal nulla e li costrinsero alla resa. «E mò andàtevene, che quello che sta per succedere non vi interessa» ci disse quello che comandava. Noi obbedimmo e tornammo a casa e per la prima volta dopo non so quanto tempo, mi addormentai sereno, con la coscienza di chi sapeva di aver dato un contributo vero verso il miglioramento di una condizione che era a dir poco inumàna: era il 23 aprile del 1943.Nei mesi successivi continuammo a correre tra Castellammare di Stabia, Pompei e Torre Annunziata: ci incontravamo al mattino e giorno dopo giorno ci sentivamo più forti, più uomini, più Liberi. Durante una di queste scampagnate, per strada trovai una granata, una bomba a mano ancora buona per essere innescata; la tenni in tasca ogni volta che andavo a correre sapendo che se fosse stato necessario l’avrei usata - per me o per loro - perché avevo deciso che nessuno avrebbe mai potuto obbligarmi a vivere secondo regole coatte, a dovermi confrontare con il timore di dover fuggire nel cuore della notte dal posto in cui ero nato. Ma soprattutto avevo capito che quello che stavamo subendo noi tutti ogni giorno, da anni, non era giusto e io non ero più intenzionato ad adeguarmi alle regole dettate dalla morale di chi aveva deciso di comandare con la forza.«Giuseppe, ricòrdati sempre cheLA GUERRA FA SCHIFO!!È la cosa peggiore che abbia mai visto ed è proprio per questo che in guerra ogni mezzo diventa lecito, specialmente se serve a far prevalere il Giusto sull’Oppressore, a restituire Dignità alle persone che ami, a fronteggiare un nemico privo di morale:se serve a opporre RESISTENZA alla tirannia».Questa è la testimonianza di mio nonno Raffaele: Combattente, Partigiano, Uomo Libero. È anche grazie alla sua scelta - oltre che al sacrificio di molti altri - se tutti noi ogni giorno possiamo dare Diritto di Essere alla nostra voce.

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