Che azienda siete: commodity o community?
Un posto di lavoro può essere scelto per il “prezzo”, o perché non c’è di meglio. Oppure per i suoi valori, la sua cultura, le relazioni, la possibilità di imparare. Da questa distinzione passa il futuro dell’employer branding e, in definitiva, del successo delle imprese
Fra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 The Van, l’agenzia di cui sono partner, ha lavorato a una ricerca sulla comunicazione e sull’employer branding (qui trovate la ricerca integrale). Mentre le interviste ai manager delle aziende (oltre quaranta) si susseguivano, andavano formandosi nella mia mente due immagini, due modelli di azienda che ho provato a classificare con delle definizioni assonanti: l’azienda commodity e l’azienda community.
Questo benedetto engagement
Chiunque si occupi di lavoro sa che l’obiettivo principale delle aziende in termini di gestione delle persone è l’engagement, cioè la capacità di coinvolgere i dipendenti. Perché questo improvviso interesse per il coinvolgimento? In sintesi, da un lato è profondamente cambiata la sensibilità delle persone, che oggi rispondono molto meno al richiamo gerarchico e molto di più a quello empatico e collaborativo: è provato che il maggiore coinvolgimento si traduce in minore rotazione, maggiore produttività e – soprattutto – maggiore capacità di attrarre nuove persone qualificate (e di tenersi le proprie). Dall'altro si innesta una profonda ragione socio-demografica: la popolazione italiana è complessivamente in calo e le nuove generazioni sono molto meno numerose di quelle vecchie. Aumenta quindi la domanda di persone giovani (possibilmente in possesso di titoli di studio qualificati), che sono anche le più sensibili ai nuovi stili di gestione e al tema del benessere in azienda, un termine che include non solo il welfare propriamente inteso, ma anche (o soprattutto) un clima sereno e collaborativo.
Commodity: un patto usurato
Le commodity, lo sappiamo, sono le materie prime: in taluni casi possono avere molto valore. Ma la parola assume spesso il senso di “bene indifferenziato”: quando compriamo alcuni beni, servizi, prodotti a volte non siamo in grado di scegliere, diciamo che “uno vale l’altro”. L’esempio più classico è quello del carburante, per il quale ci interessano sostanzialmente due cose: prezzo e vicinanza. Un’azienda-commodity, quindi, è quella retta da un patto semplice: prestazione professionale in cambio di denaro. In un’azienda-commodity si può resistere a lungo: ma appena si trova di meglio è facile lasciarla, per un pugno di chilometri in meno da percorrere nel traffico, per un giorno in più di smart working alla settimana, per uno stipendio migliore.
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L’azienda-commodity è un’azienda fragile dal punto di vista dell’engagement. Quello che nel post-Covid è stato erroneamente chiamato great resignation (grandi dimissioni) era in realtà il great reshuffle (grande rimescolamento): le persone, infatti, non sono andate ad aprire il fantomatico chiringuito ai Caraibi, hanno “solo” cambiato lavoro. Per migliorare il proprio work-life balance, l’allineamento tra i propri valori e quelli dell’azienda. In tre parole: per stare meglio.
Community: il senso di stare insieme
Proprio lo smart working ci pone una domanda scomoda: se è vero che abbiamo imparato a fare quasi tutto da remoto, ha senso andare in ufficio? Ne ha, io credo, se in quell’ufficio si impara, si dialoga, ci si arricchisce culturalmente, si condividono valori, si raggiungono risultati professionali ma anche sociali che individualmente non sarebbero immaginabili: pensiamo ai progetti sociali e ambientali che le aziende riescono a realizzare proprio in quanto aziende, con economia di scala anche sul piano sociale, e che ben difficilmente un singolo potrebbe conseguire. L’azienda che consente e premia queste interazioni è un’azienda-community, alla quale le persone sentono di appartenere per ragioni non solo economiche. È un’azienda che si sceglie esattamente come si sceglie un brand: costa un po’ di più? Sì, ma i benefici in termini estetici, culturali, identitari, valoriali compensano ampiamente il maggior costo.
Diventare un’azienda community non è facile né privo di costi. Comporta un grande lavoro, che coinvolge sempre il top management: ma è il tipo di azienda che oggi noi – e ancora più i nostri figli – vogliamo con forza. Provati da crisi, guerre, pandemie, disruption tecnologiche e geopolitiche, chiediamo di poter lavorare non tanto a casa, da soli, bensì in un posto in cui sentirci a casa, con gli altri.
Sposo appieno questa visione e l'ho applicata insieme ad altri partner con cui abbiamo costituito ItaliaCommunity e BSI Business | Services | Innovation.
People engagement&empowerment #changesoundsgood #peoplehavethepower #shapenewhabits #freedommanagement #boostinnovation
6 mesiBella questa provocazione ! Mi sento “richiamato” nel club (direi forse più tra gli “ultras”) delle aziende #community …e felice di accompagnare insieme qualche azienda che volesse rifletterci su e costruirci intorno un percorso
Dirigente
6 mesiGrande articolo. Ne avevo avuto anticipazione con una cotoletta da 75 euro e una bottiglia di Lambrusco per dare quel tocco di emilianità