Chiusura del fallimento in pendenza di giudizi e limiti della cognizione del giudice in sede di reclamo.

Chiusura del fallimento in pendenza di giudizi e limiti della cognizione del giudice in sede di reclamo.

La Corte di Cassazione, nella sentenza del 20 aprile 2022, n. 12666 ribadisce il principio secondo il quale la cognizione rimessa al giudice in sede di reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento riguarda soltanto la ricorrenza di uno dei casi di chiusura elencati all’art. 118 l.fall. ed ogni diversa doglianza deve essere fatta valere nelle sedi proprie, esterne alla procedura. 

Nel caso di chiusura di cui all’art. 118 n. 3 l.fall., fattispecie oggetto della sentenza in commento, occorre, in particolare, che si sia esaurito il procedimento di riparto dell’attivo a norma dell’art. 117 l.fall. ovvero che: 

i)               il progetto di riparto finale predisposto dal curatore sia divenuto esecutivo; 

ii)              il curatore abbia provveduto al pagamento delle somme assegnate ai creditori ed effettuato gli eventuali accantonamenti delle somme relative, inter alia, a provvedimenti non ancora passati in giudicato; 

iii)             siano stati definiti gli eventuali reclami avverso il progetto di riparto finale. 

A tale proposito, la riforma del 2015 ha introdotto la possibilità, per il caso in cui si è compiuta la ripartizione finale dell’attivo (art. 118 n. 3 l. fall.), di chiudere la procedura di fallimento anche qualora vi siano giudizi pendenti, per i quali prevede che il curatore mantenga la legittimazione processuale ai sensi dell’art. 43 l.fall..

La ratio della norma è da rintracciare nell’esigenza di abbreviare i tempi delle procedure fallimentari, evitando di tenerle aperte a causa dei tempi lunghi di definizione dei giudizi nei quali la curatela fallimentare è parte, e ridurre l’incremento dei ricorsi volti ad ottenere gli indennizzi da irragionevole durata delle procedure concorsuali. 

È pacificamente riconosciuto (e ora previsto dall’art. 234 Codice della Crisi) che nel novero dei giudizi pendenti che non ostano alla chiusura del fallimento vi siano anche le procedure esecutive: si ritiene che non impediscono la chiusura tutte le cause pendenti che possono favorevolmente incidere sulla massa attiva, determinando sopravvenienze rispetto a quanto realizzato in sede di chiusura. Ne consegue, nel caso di procedura esecutiva pendente, che il fallimento potrà ben essere chiuso, ma dovranno essere accantonate le somme ricevute dalla procedura per effetto dei provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato. 

Nel caso sottoposto all’esame della Cassazione, sembrerebbe che il tribunale non abbia effettuato l’accantonamento del prezzo di aggiudicazione dell’immobile il cui decreto di trasferimento è stato oggetto di opposizione ex art. 617 c.p.c., nonostante la pendenza di tale impugnazione. Nel caso di specie, il Tribunale fallimentare in sede di emissione del decreto di chiusura del fallimento ha probabilmente valutato scarsamente probabile l’accoglimento del giudizio di opposizione all’esecuzione del decreto di trasferimento e, in ogni caso, anche in caso di accoglimento, ha probabilmente ritenuto che rari sono i casi di impatto di tale accoglimento sull’efficacia della vendita, anche alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite della Cassazione in merito alla efficacia e definitività del decreto di trasferimento. 

A ciò si aggiunga che, in termini generali, la dottrina si è interrogata sulla possibilità di chiudere il fallimento in pendenza di giudizi che potessero comportare addirittura la retrocessione di beni, e ne ha ritenuto possibile la chiusura, considerando che nel decreto di chiusura dovranno essere date, ai sensi dell’art. 118 ultimo comma l.fall., le disposizioni esecutive necessarie allo scopo, tra le quali anche le modalità di liquidazione del bene. È infatti pacifico che il bene non torna nella disponibilità del fallito, in quanto parte titolare del diritto controverso nel giudizio pendente è la massa dei creditori ed è pacifico che in relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. 

Se pur in casi rarissimi, si rischia tuttavia di sacrificare l’interesse dell’aggiudicatario che si vede costretto a restituire il bene al fallimento senza garanzie sulla restituzione dell’intero prezzo di aggiudicazione (la nuova vendita potrebbe infatti essere meno proficua della prima), ma d’altronde si tratterebbe di fatto – in buona sostanza – di un errore degli organi fallimentari che non hanno proceduto ai dovuti accantonamenti prudenziali in pendenza di un giudizio oppure non hanno svolto regolarmente la fase di vendita, inficiandola di vizi formali, oppure perfino un caso di collusione tra il fallimento e l’aggiudicatario, tutte ipotesi da valutare sotto il profilo delle conseguenti responsabilità, a prescindere dall’avvenuta chiusura o meno della procedura fallimentare. Quindi, nessun interesse al mantenimento della procedura fallimentare, meritevole di tutela, si può ravvisare in capo all’aggiudicatario reclamante. 

Per approfondimenti si veda il mio articolo pubblicato su IlFallimentarista dell'11 agosto 2022 (https://ilfallimentarista.it/articoli/giurisprudenza-commentata/chiusura-del-fallimento-pendenza-di-giudizi-e-limiti-della).

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