Coaching e sviluppo professionale
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.
Cit. PRIMO LEVI
La Laurea in Psicologia del Lavoro mi ha consentito di approfondire temi legati al benessere organizzativo e alla gestione delle risorse umane. La selezione del personale ha suscitato in me la riflessione che ogni candidato o meglio ogni individuo è “unico” e come tale possiede non solo capacità e competenze ma proprie potenzialità, talvolta inespresse.
I miei colloqui si sono trasformati così sempre più in incontri di consulenza alla carriera e orientamento, in cui consigliavo al candidato una valorizzazione delle competenze acquisite e le possibili nuove opportunità lavorative rispetto al ruolo o al settore.
Semplificando era porre l’attenzione sul bicchiere “mezzo pieno”, su quanto valeva e su ciò poteva migliorare, piuttosto del bicchiere “mezzo vuoto” rappresentato da non esser stato prescelto.
Oggi il mio profilo LinkedIn, caratterizzato principalmente dalle attività di Consulenza di Carriera rispetto all’esperienza parallela di Responsabile Risorse Umane, si presenta con questa informazione: “… Il mio obiettivo professionale è di trasmettere ciò in cui credo: il concetto di "Buon Lavoro". Considero un Buon Lavoro l'attività coerente a ciò che sei, ed è proprio "Il Lavoro" che può consentire la soddisfazione del bisogno di autorealizzazione di ognuno di noi.”
Ampliando l’analisi, ritengo che la questione del lavoro nella nostra vita si possa sintetizzare tra due estremi: da un lato il lavoro come fatica e dolore da evitare il più possibile e dall’altro il lavoro come capacità di trasformare sé stessi con occasioni di apprendimento e crescita.
Nelle mie esperienze lavorative focalizzate nell’ambito della gestione delle risorse umane ho sempre cercato di trovare la seconda opzione e di ottenere da ogni giornata lavorativa un arricchimento.
Negli ultimi anni ho così seguito due corsi specifici di Coaching, in particolare ad indirizzo Umanistico, che mi hanno aperto a un approccio meno giudicante e più attento alle migliori espressioni della persona. Mi sono reso conto che il Coaching è uno stile di vita e un atteggiamento da poter esprimere in ogni contesto della vita.
Ho individuato nel metodo del Coaching la modalità per far riconoscere al candidato, ora sempre più coachee IL LAVORO, in cui IL doverosamente maiuscolo indica l’attività in cui esprimiamo al meglio il nostro “essere” oltre al “fare”.
Sono convinto che il Coaching e i principi su cui si fonda sia un metodo che possa agevolare coloro che vivono fasi importanti di transizione lavorativa o comunque di cambiamenti professionali.
Il lavoratore poco soddisfatto della propria posizione lavorativa e per certi versi ancor di più il disoccupato affronta solitamente il periodo di ricollocazione con stati d’animo negativi, caratterizzati da sfiducia e frustrazione. Molte volte il senso di inadeguatezza e pessimismo è conseguenza di colloqui di lavoro non andati a buon fine o peggio ancora di giudizi “svalutanti” la sua professionalità.
Secondo degli studi risalenti al 1963 degli psicologi Thomas Holmes e Richard Rahe e aggiornati nel 1971 da Paykel sul life events la perdita del lavoro era classificata all’ottavo posto tra gli eventi che generano stress, e oggi resta il terzo fattore critico in ordine di importanza dopo quelli attinenti lutti, separazioni famigliari o sentenze di carcerazione.
Secondo gli studi di Elisabeth Kubler Ross (Psichiatra Svizzera) di fronte alla rottura di una situazione pre esistente l’individuo attraversa vari atteggiamenti che da shock e iniziale rifiuto giunge ad una fase di ricostruzione.
Nel ciclo finale di questa curva, negli aspetti riferiti alla ricostruzione, il Coaching può diventare il metodo per riprendere fiducia e ottimismo e aumentare la consapevolezza sulle proprie potenzialità “scacciando” le interferenze.
Il Coaching, secondo la norma UNI 11601, è “un processo di partnership finalizzato al raggiungimento degli obiettivi definiti con il coachee e con l’eventuale committente e si basa su una relazione strutturata di reciproca fiducia. L’agire professionale del coach facilita il coachee a migliorare le sue competenze mediante la valorizzazione delle sue risorse (livello di motivazione ed energia)”.
Appare chiaro da tale definizione che esiste una relazione coach/coachee basata sulla fiducia, così come l’azione del coach è esclusivamente rivolta alla valorizzazione delle risorse potenziali del coachee.
Pertanto già questi aspetti, nella relazione con la persona che affronta un periodo di insoddisfazione professionale, consentono un processo di facilitazione della crescita personale/professionale basato sulla consapevolezza e poi sul raggiungimento di obiettivi autodeterminati.
Secondo il libro L’Essenza del Coaching di Pannitti e Rossi (2012 Franco Angeli) la relazione facilitante si instaura attraverso le “4 A”.
Le riporto di seguito, con una breve considerazione rispetto al tema della transizione di carriera/ricerca lavoro:
Accoglienza: Intesa come capacità di accettare il coachee per come è, secondo la sua unicità. Non vi è giudizio o ogni altra valutazione.
Tale premessa pone un approccio completamente diverso rispetto al colloquio di lavoro o assessment e la conseguente ansia da prestazione.
Ascolto Attivo: Inteso come ascolto verso il contenuto verbale e non. Secondo Thomas Gordon (2002) lo scopo dell’ascolto attivo è comunicare la nostra comprensione.
Quanti candidati ho sentito affermare “… nel colloquio di selezione non sono stato capito…”
Alleanza: Intesa come modalità di aderire senza condizioni alla richiesta del coachee, di affiancarlo nel viaggio di scoperta del potenziale. Non può esserci che investimento migliore per un coachee in fase di cambiamento professionale quello di valutare e ri-valutare non solo le potenzialità ma anche aspetti quali competenze, attitudini ed esperienze passate rilevanti.
Autenticità: Con tale termine Panniti e Rossi intendono la capacità di unire Accoglienza – Ascolto Attivo- Alleanza.
Mi piace pensare che chi affronta una situazione di cambiamento professionale e decida di affidarsi ad un coach, o se vogliamo utilizzare un termine più specifico, ad un Career Coach, possa sentirsi finalmente Autentico.
La Felicità al lavoro esiste ?
Prima di rispondere a questa domanda è importante ricordare che il lavoro rappresenta non solo una fonte per le necessità primarie della nostra vita ma anche l’identità di ogni individuo all’interno della società. Spesso quando conosciamo una persona, tra le prime domande c’è proprio che lavoro fai ?, e in base alla risposta arriviamo ad alcune conclusioni.
All’interno della domanda di Coaching, si cela la personale ricerca di felicità. Come ben chiarito nel capitolo specifico del libro L’ Essenza del Coaching la felicità è un argomento che deve interessare ogni coach.
Ma possiamo parlare di felicità al lavoro?
La parola Norvegese Arbeitsglaede significa felicità al lavoro e ciò fa capire come la cultura di un paese possa influenzare approccio e atteggiamento. Se nella lingua Italiana manca la parola specifica che possa descrivere la piena soddisfazione professionale è molto più difficile pensare di poterla raggiungere.
(Rilevo comunque una nota positiva in quanto in Italiano manca anche il termine giapponese Karoschi, letteralmente “morire di lavoro”.)
Per fortuna ci viene in aiuto Martin Seligman il fondatore della Psicologia Positiva, che alla fine degli anni ’90 ha dato un contributo importante al metodo del Coaching con la classificazione delle virtù universali e delle potenzialità personali (personal strenght).
L’approfondimento sulla felicità al lavoro possiamo ricavarlo dalla descrizione da lui fornita su 3 diversi tipi di felicità:
Felicità dalle emozioni positive, definita anche dagli Americani felicità “Hollywoodiana”, che facciamo coincidere con le sensazioni positive di appagamento conseguente la soddisfazione di un desiderio immediato o comunque fine a sé stesso (la vacanza o un acquisto particolare per esempio).
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A questo tipo di felicità ci si abitua rapidamente generando quel meccanismo definito “adattamento edonistico”, in pratica l’effetto euforizzante della novità finisce inevitabilmente per attenuarsi.
In ambito lavorativo considero questa felicità le emozioni positive che può dare un riconoscimento economico, lo status di un ruolo o un benefit particolare. Sono emozioni piacevoli e benvolute ma la felicità che creano è destinata a svanire con il tempo.
Felicità che deriva dalle esperienze ottimali. Siamo in pratica felici quando esprimiamo il meglio di noi stessi in ciò che facciamo. Lo Psicologo Mihaly Csikzentmihalyi definì con il concetto di Flow quello stato mentale ottimale che si verifica quando la prestazione è al culmine e lo stato d’animo è positivo.
Lo psicologo individua dei fattori precisi che determinano in combinazione tra loro l’esperienza di Flow, e tali fattori si possono riscontrare anche in contesti professionali rendendo indubbiamente il lavoro più vicino al concetto di felicità. Ecco i fattori individuati: Obiettivi chiari, concentrazione totale sul compito, perdita dell’autoconsapevolezza, distorsione del senso del tempo, bilanciamento tra sfida e capacità, senso di controllo (la percezione di aver tutto sotto controllo e di poter dominare la situazione) e piacere intrinseco (l’azione da un piacere fine a sé stesso).
Felicità con la vita piena di significato. Siamo felici quando riusciamo a dare un senso alla nostra vita. La nostra esistenza è indirizzata ad una “mission”.
L’insegnante, il medico sono tipici professioni con una chiara impronta “vocazionale” ma dopotutto in ogni mansione l’individuo può ricercare una “missione”.
La frase di Joseph Conrad in Cuore di Tenebra “Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno- ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare sé stessi, scoprire la propria realtà che nessun altro potrà mai conoscere” definisce secondo me chiaramente una prospettiva del concetto di felicità al lavoro.
Cosa può fare il coach per favorire quindi il raggiungimento della felicità al lavoro o comunque il raggiungimento di un appagamento significato nel proprio lavoro?
Secondo Seligman una delle premesse fondamentali per fare esperienze ottimali è quella di conoscere i propri punti di forza e le attitudini personali e sapere adattare la propria vita in modo tale da utilizzarli il più possibile.
Pertanto porsi l’obiettivo di consapevolezza delle proprie potenzialità e delle proprie motivazioni intrinseche nel mondo del lavoro diventa fondamentale per chi aspira alla felicità al lavoro.
Michael W. Fordyce, è uno psicologo americano tra i maggiori studiosi della felicità dal punto di vista sperimentale e in una delle sue più importanti ricerche sostiene l’esistenza di quattordici principi fondamentali che contraddistinguono le persone molto felici.
Gli approfondimenti di Panniti – Rossi esposti sul libro L’Essenza del Coaching raggruppano questi principi in tre parametri: La sfera del fare, la relazione con gli altri e il rapporto con sé stessi.
Il parametro della sfera del fare mette in evidenza che l’impegno profuso e produttivo genera soddisfazione e, perché abbia un effetto reale sullo stato di felicità, deve orientarsi su attività ricche di significato.
Questa considerazione ci porta alla riflessione di quanto sia importante svolgere un lavoro che ci dia soddisfazione, in caso contrario le soddisfazioni andranno ricercate in attività compensatorie.
Il Coaching e le scelte dei giovani
La pandemia ci ha obbligati a fermarci e guardare un po’ in prospettiva molti aspetti della nostra vita, compreso l’ambito lavorativo.
Secondo il Ministero del Lavoro, nel secondo trimestre di quest’anno quasi mezzo milione di persone ha optato per le dimissioni volontarie, in aumento dlel’85% rispetto al 2020, non per restare inattivo, ma per trovare una soluzione più consona. Un numero che arriva a 770mila alla fine di ottobre, secondo le statistiche della Banca d’Italia, 40mila in più del periodo pre -pandemia.
Quello che si sta riscontrando in generale durante l’era Covid è il desiderio di ricercare un senso nel proprio lavoro. Molte persone sono state indotte a rivalutare i propri piani e a decidere veramente cosa vogliono fare della propria vita.
“La ricerca del senso” è una tendenza molto comune soprattutto nelle nuove generazioni : il 13% dei Millennials Europei ha affermato di essersi dimesso nell’ultimo anno per mancanza di scopo e passione nel proprio lavoro.
Il motto dei Millennials e della Generazione Z è YOLO, "You only Live Once", e ciò su cui si focalizzano è la YOLO Economy, volta a vivere a pieno le proprie passioni e la propria inclinazione imprenditoriale, abbandonando il posto fisso alla ricerca di un senso più profondo nella propria professione.
E’ stata battezzata Great Resignation o Big Quit e denota una emergente tendenza dei lavoratori dipendenti a lasciare volontariamente il lavoro, soprattutto dopo la pandemia di Covid-19 ed il lockdown.
Che la crisi sanitaria abbia cambiato la vita di tutti è indubbio ed ha innescato una crisi economico-sociale d grandi proporzioni, tanto da indurre anche chi ha un posto fisso a scegliere qualcosa di diverso in cambio di un miglioramento della qualità della vita.
La definizione riportata da Fondazione Rui – 2009 “Il Coaching può essere definito come l’arte di favorire o accelerare un cambiamento personale” sembra ricondurre al metodo una modalità ben rispondente alla “crisi vocazionali” che sono nate in questi due anni.
Ritengo personalmente fondamentale sviluppare un approccio all’ auto-orientamento scolastico e professionale sin dalla giovane età stimolando i ragazzi a far emergere passioni, interessi, attitudini come guida alle scelte basata non più sono cosa voglio “fare” da grande ma bensì cosa voglio “essere”.
Questa prospettiva accompagnata da un’analisi dei propri valori e principi apre la strada a far affiorare la motivazione intrinseca, motore indistruttibile del nostro agire.
Nel bellissimo libro Opus di Pietro Trabucchi (Psicologo dello Sport e docente Universitario) viene evidenziato come il luogo comune sulla mancanza di motivazione delle nuove generazioni interpreta alcuni aspetti del disagio giovanile. L’autore la considera una distorsione della realtà, in quanto non è che i giovani non abbiano motivazioni ma piuttosto non sono capaci di farla durare e arrivano alla demotivazione facilmente.
Manca in pratica la resilienza, cioè la capacità di far durare la motivazione a dispetto di tutte le difficoltà e la resilienza non è altro che la dimensione cognitiva della motivazione.
Non può quindi che esistere un legame profondo tra la motivazione interiore e la resilienza. Chi è spinto dall’automotivazione è molto più resiliente in quanto le condizioni che vengono definite “stressanti” non appaiono come tali.
Qualsiasi lavoratore che ha scelto il proprio mestiere in base ad inclinazioni personali e passioni o che comunque di fronte alle inevitabili difficoltà le affronta come parte della propria ispirazione e vocazione si impegnerà senza la sensazione che il lavoro sia una prigione e un castigo divino.
Tratto dal libro di Trabucchi “la stessa sveglia che suona tutte le mattine quale prova inconfutabile dell’odio dell’universo nei nostri confronti, nei giorni in cui possiamo soddisfare le nostre passioni può suonare due ore prima e farà parte della nostra giornata felice”.
Tra i tanti poteri del Coaching vi è addirittura far amare la sveglia mattutina! 😁
Alessio Pigro
Psicologo del Lavoro - Career Coaching