CON L’INDAGATO E CON I GIUDICI, IL POLITICHESE DEI 5 STELLE
Nemmeno le formule più audaci del politichese possono andare in soccorso del Luigi Di Maio che vuole conciliare l’inconciliabile, il patto di governo con Matteo Salvini indagato e la venerazione indiscriminata dei 5 Stelle, fin qui dimostrata per qualsiasi azione della magistratura.
Sta con i magistrati, dice, ma anche con chi, come il suo collega vicepremier, considera una «vergogna» (testuale) l’offensiva a suo danno di un magistrato.
«Indagato» era una brutta parola per i seguaci di Grillo, e la presunzione di innocenza, sancita dalla Costituzione repubblicana, uno scomodo diversivo che ostacolava la meritata condanna. Oggi Matteo Salvini è indagato, che non significa colpevole, e non significa neanche, allo stato, meritevole di andare sotto processo: saranno le indagini del Tribunale dei ministri. Ma i 5 Stelle sono sempre stati contrari a questo principio, e le dimissioni per chi era indagato un articolo di fede. Ora invece è l’era dei distinguo, delle sfumature, del dire e non dire, persino una forma di condivisione solidale nelle scelte sull’immigrazione cerca di smussare gli angoli, eliminare verbalmente le asprezze della logica e della politica.
Si sta con la magistratura certo, ma poi c’è un «codice etico» a sanare la fatale contraddizione. Dice Di Maio che il «codice etico» del suo Movimento non impone ipso facto le dimissioni di Salvini. Ma Di Maio è il vicepresidente del Consiglio del governo della Repubblica, non il responsabile di un’associazione privata che si dota di un suo pur ammirevole «codice etico». Un ministro non è un militante di partito da sottoporre al giudizio di un collegio di probiviri. E il Parlamento è l’organo che rappresenta la sovranità popolare, non già un popolo circoscritto, selezionato, unanime, che si esprime attraverso un blog.
Ora Di Maio cerca con le parole di coprire l’incoerenza di mettere insieme la purezza richiesta dalla sua base cresciuta a colpi di giustizialismo e gli imperativi del realismo politico. Ma le parole non possono tutto. Se il Tribunale dei ministri dovesse decidere che ci sono gli elementi per procedere nei confronti di Matteo Salvini, il Senato potrebbe essere chiamato a pronunciarsi per autorizzare o meno il processo al ministro dell’Interno e vicepremier. A quel punto cosa prevarrebbe, la solidarietà di governo o il rispetto per la magistratura? Si assiste a un curioso rovesciamento delle parti, peraltro: i garantisti di ieri si accaniscono sui 5 Stelle in difficoltà per lo scossone che la magistratura sta assestando alla politica; i giustizialisti invece si mostrano comprensivi, accomodanti, moderatissimi, adusi alle fumosità del lessico politico. Non possono dire quello che veramente pensano perché se dicessero che la magistratura ha torto verrebbero meno a un dogma sino a qui indiscutibile, se invece incoraggiassero la magistratura ad andare fino in fondo metterebbero in discussione l’esistenza stessa del governo di coalizione giallo-verde. Le parole danno l’illusione di allontanare l’ora delle scelte. E meglio sarebbe, anziché continuare in questa navigazione zigzagante, che un partito di governo come i 5 Stelle indicassero una volta per tutte le ragioni di un ripensamento sull’intransigentismo di facciata dimostrato fino al 4 marzo, giorno della loro investitura plebiscitaria. Cambiare è lecito, purché il cambiamento venga spiegato apertamente e con lealtà. L’alternativa è questo continuo traccheggiare tra sponde opposte, una riesumazione della vecchia politica che finora è stata il bersaglio preferito di un movimento aggressivo come quello creato da Grillo e Casaleggio senior. Ma i fatti sono più cocciuti delle parole rassicuranti.
Pierluigi Battista – Corriere della Sera