CRIMINAL di Salvatore Minieri

CRIMINAL di Salvatore Minieri

Tratto da Criminal - di Salvatore Minieri


ENRIQUETA MARTÍ,

LA CITTÀ ACCOGLIE IL MOSTRO



Gli uomini passano per essere crudeli,

le donne invece lo sono.

Friedrich Nietzsche,


Aveva quindici anni e mezzo, quando provò l’ebbrezza di un rapporto sessuale a pagamento. Ebbrezza, sì, perché lei aveva una congenita e morbosa legatura psicotica con il danaro. Lo sognava, persino a nove anni. Raccontò alla madre di aver visto di notte una vasca piena di soldi e di essere morta per soffocamento, tra tutte quelle banconote umide e sporche. 

Enriqueta Martì era cresciuta in un paesino di campagna a dieci chilometri da Barcellona, Sant Feliu de Llobregat. Un borgo rurale impregnato fin nelle mura di superstizioni magiche e grotteschi riti propiziatori. Streghe bisbiglianti nei campi ogni notte, ombre agghiaccianti che si muovevano nelle stalle, rumore di passi sui tetti, quando arrivava la Quaresima con le sue donne nere. 

Era un villaggio al quale nessuno si avvicinava perché, si disse per decenni, in quel posto dimenticato persino dalla primavera, anche in pieno luglio, c’erano notti di freddo sinistro e innaturale. 

Nel marzo del 1878, Enriqueta aveva appena compiuto dieci anni, ed ebbe la buona fortuna di non assistere alle raccapriccianti scene che una mattina si presentarono agli occhi dei pochi abitanti di Sant Feliu. Il bestiame era morto. Tutto. Nemmeno un animale era scampato a quella misteriosa mattanza. Su molti capi era apparsa una bruciatura profondissima a forma di L e tutti gli animali non avevano più gli organi interni. A terra, nemmeno una traccia di sangue o del passaggio di qualcuno. 

Nessuno fiatò. Anzi. Le donne non si fecero nemmeno il segno della croce. Portarono le carcasse in una grande fossa, scavata all’ingresso del villaggio agricolo, e non ne parlarono mai con nessuno. C’era chi, in una vita intera vissuta in quella arretrata campagna catalana, non aveva mai oltrepassato un fitto canneto intorno al quale veniva lavorata la canapa perché - si diceva di sera, davanti al fuoco di ogni cucina buia - oltre quelle canne c’erano strane fosse coperte dalla boscaglia, dalle quali si rischiava di non uscire più. E poi, superstizioni e leggende di topi grandi quanto persone, pronti a divorare chiunque passasse. Quella campagna, che fu scenario e orizzonte della maturazione psichica di Enriqueta Martì, non era un posto dove far crescere in serenità dei bambini. Convivere con la presenza costante di ombre inquiete e strani segni magici che apparivano ovunque, pare sia rimasta la cifra traumatica nella testa della giovanissima figliola di quel padre alcolizzato e di una mamma sempre malata che, per tirare avanti, puliva stalle e abitazioni per poche monete.

Marc Pastor, della Polizia Scientifica di Barcellona, qualche decennio più tardi ha chiarito quanto fosse feroce l’indole di quella ragazza minuta che aveva trascorso il suo primo periodo di lontananza dal villaggio di Sant Feliu in una città radicalmente diversa. Maiorca. Dopo pochi mesi di permanenza, nutrita da lavori leciti di pulizia e concessioni del proprio corpo ad anziani signori della borghesia mallorquina, Enriqueta aveva già iniziato la sua lunga e sanguinaria corsa verso la follia che la portò a diventare persino antropofaga.

“Non conosciamo il numero esatto delle vittime, è parte del mito. Sappiamo che Jack lo squartatore ha ucciso cinque persone ma non sappiamo quante ne abbia uccise Enriqueta. È stata arrestata nel 1912, ma già nel 1901 era andata tre mesi a Maiorca ed era dovuta tornare indietro in fretta e furia perché gli abitanti di quella città la volevano morta. Quindi possiamo supporre che sia andata avanti a uccidere adulti e bambini per almeno 12 anni. Ho incontrato molte persone che, dopo aver pubblicato il libro, mi hanno detto “Mia nonna è stata vittima di Enriqueta,” oppure, “Mio nonno è stato una delle persone che Enriqueta ha provato a rapire.” Mi hanno mostrato delle foto. Enriqueta ha rapito un sacco di gente. Una donna mi ha detto che una volta, quand’era piccola, sua nonna venne avvicinata da una donna che offrendole una caramella tentò a convincerla ad andare via con lei”.

Già nel 1901, la futura belva di Barcellona si ritrovò con un foglio di via tra le mani, per reati così gravi da farla considerare nemico numero uno per la sicurezza della città. Dal piccolo villaggio, era venuta fuori una delle personalità più pericolose e oscure di tutta la storia della violenza femminile. E Sant Feliu era stato inconsapevolmente il laboratorio, nero e denso di rumori cupi, che aveva contribuito alla formazione alchemica di una delle menti criminali più complesse e sfuggenti mai incontrate prima nei quartieri europei. Una donna. Persino gradevole di aspetto e dotata di intelligenza solida. Enriqueta Martì è stata la più vivida contraddizione in campo criminologico. Da balia amorevole, alla quale i bambini si legavano con affetto filiale, a prosseneta e divoratrice di quelle stesse creature inermi. Tutto per ottenere l’immortalità che, secondo le leggende ascoltate nel villaggio, quando era poco più che una bambina, si poteva guadagnare solo mangiando carne umana, innaffiata dallo stesso sangue caldo dei piccoli che rapiva per le strade di una Barcellona distratta dalla più violenta e incredibile rivolta anticlericale delle pagine di storia spagnola. 

Uno degli ultimi referti storici sulla donna, avrebbe fatto impallidire il più navigato cattedratico di psichiatria forense:

Rapiva i figli e le figlie di prostitute e mendicanti; bambini di cui nessuno sapeva nulla. Li rapiva vicino a casa sua e li portava lì. La testimone ha raccontato di aver visto Enriqueta dare qualcosa al bambino per farlo addormentare, perché non voleva che si mettesse a urlare. Successivamente usando un coltello gli ha tagliato la gola per poi squartarlo come un animale. Enriqueta voleva usare il sangue. Non solo destinava i bambini alla prostituzione, per i pedofili, ma li usava anche per fare bevande e per altri tipi di stregoneria. Ai tempi non esitevano medicine. Un sacco di gente aveva la tubercolosi o malattie simili e lei sosteneva che bere il sangue di un bambino di otto anni li avrebbe aiutati. Anche il cannibalismo ha giocato un certo ruolo nella vicenda. In ogni caso, lei era convinta che bere il sangue e mangiare la carne dei bambini le avrebbe dato l’immortalità, e lo faceva per questo motivo.

C’è un mostro che si nasconde nel più malfamato quartiere della città, El Raval. Non ha alcun segno caratteristico. È una donna che veste normalmente, cammina per la città in pieno giorno, con aria tranquilla. Tutti la conoscono, sanno che è una brava balia e che, per arrotondare la sua “ostentata” criticità finanziaria, svolge anche le pulizie in alcune case della Barcellona bene. La chiamano Enriqué, e tutti ripongono una fiducia assoluta in quella ragazza magra, bruna, dai modi garbati. Parla così poco da essere riconosciuta da tutti come persona timidissima e riservata. Enriqueta ha sempre addosso profumi gradevoli e mangia di continuo caramelle alle erbe, “per curare una stomatite che mi tormenta da quando ero ragazzina”, ha mentito lei per una vita. Dietro quel buon odore e le sue pasticche, c’era un belva che, quotidianamente, sfruttava i corpi dei bambini e poi ne faceva pezzi da mangiare o da conservare per l’ennesimo suo disgustoso giro di affari. Le creme e i rimedi per la tubercolosi, da vendere alla Barcellona ricca che sapeva e chiudeva entrambi gli occhi su quel mercimonio di carne e organi. 

Perché Enriqueta Martì era arrivata da Maiorca in silenzio, strisciando come fece per tutta la sua maledetta esistenza. Era furba, quella donna, tanto da pianificare la vita, srotolandola su due tappeti diversi. Strega oscena e laida di giorno e dama che frequentava i concerti del Teatro Liceu o del Casinó de la Arrabassada, di sera, insieme alla borghesia catalana più viziosa quando, con vestiti eleganti e profumi da gran signora, passeggiava nel foyer di teatri nobili. Duemila anni prima, Orazio aveva già raccontato della mattanza di bambini per farne carne da rituale esoterico. 

“Il bambino ancora impubere, spogliato delle sue insegne di libero, avrebbe intenerito perfino il cuore crudele dei Traci. [...] Così il bambino, seppellito nella fossa con il volto scoperto, come i nuotatori che emergono dall’acqua soltanto con il mento, morirà lentamente, davanti allo spettacolo di piatti carichi di cibi spesse volte cambiati. E quando gli occhi fissi sul nutrimento negato si saranno chiusi per sempre, il midollo e il fegato disseccati del bambino diventeranno un filtro d’amore”. (Epodi, V, 11-38)

E la Martì sembrava emanazione diretta di quei racconti grotteschi e ributtanti, composti in epoca classica e ripetuti, in una triste riproposizione storica, nel cuore della Spagna più sporca e buia. 

Perché nessun mostro diventa tale se non ha intorno un contesto nel quale lasciare a marcire le sagome più oscure della propria psiche. E la Martì non fece sicuramente eccezione, con una città purulenta e fluida come quella. 

Nei primi giorni di febbraio del 1903, Enriqueta arrivò a Santa Madrona, il fondaco portuale più pericoloso della Catalogna, per iniziare il suo cammino di vampira. 

Poco più che ragazzina, iniziò a frequentare uomini e a prostituirsi con la metà degli sbarcati al porto di Barcellona. Lei contraeva malattie ed era il morbo stesso che aspettava di contagiare chiunque mettesse piede su quelle banchine.

Ma non bastavano mai i soldi, perché Enriqueta aveva assaporato la parte molle della vita catalana, quella che sapeva di buono. 

Secondo le analisi del periodico “Scena Criminis”, la carriera della Martì non ebbe mai come spinta propulsiva la pazzia, perché la ragazza di Sant Feliu risultò essere sempre lucida, nella sua raggelante azione predatoria. Era sana di mente, ma aveva sviluppato un’avidità tale da essere succube del danaro in maniera drammatica. Tanto da accettare ogni forma di mercimonio, persino quello dei piccoli bambini inermi che la città partoriva dalle sue viscere più oscure per poi vomitarli nei bordelli, dove i ricchi barcellonesi sfogavano ogni loro istinto bestiale.

Enriqueta entrò nella pancia grassa di Barcellona, nei vizi e nelle perversioni inconfessabili di una città divisa in due, tra sporcizia affamata e nuova ricchezza, prodotta dal Modernismo culturale ed economico della Catalogna. Aveva un quoziente intellettivo animalesco, come i suoi istinti da felina spietata e intuì quanto danaro si potesse ricavare dalla classe elevata della città. 

Iniziava così un abbraccio sanguinario, tra la mente femminile più feroce degli ultimi due secoli e una delle borghesie urbane meglio penetrabili da chi avesse voluto spremerne i profitti maggiori. 

Quella ragazza, arrivata da uno sperduto limite agricolo della Spagna, fu il medium orrido tra le pulsioni depravate di una classe sociale e i bassifondi dell’altra parte di Barcellona, quella che mangiava e usava come bagno la stessa stanza, nei quartieri più allucinanti che l’Europa occidentale avesse mai avuto. 

Chissà quanto involontariamente, Enriqueta Martì divenne la mano gelida che seppe tenere unita la solarità di una città che ribolliva per la voglia di indipendenza e l’intestino nero e catarroso che sembrava stare a pochi metri dal livello del mare. Lì, sul porto dove iniziò a vendersi, per due pesetas e un boccone di carne riscaldata, a vecchi nocchieri e banditi appena sbarcati. 

Ma quei soldi finivano presto, troppo presto per poter vivere come piaceva a Enriqueta.

Perché il ricordo della fame atavica, che si portava dietro dal villaggio agricolo, la perseguitava. Era una forma di rivalsa sociale per la Martì. Lei doveva dominare chi oggi viveva come lei aveva vissuto qualche anno prima di diventare la più vorace prostituta e tenutaria di bordelli di Barcellona. Enriqueta Martì non uccideva per il piacere sadico di togliere la vita tra atroci sofferenze. Lei divorava anche psicologicamente le vittime per soldi. Ogni corpo smembrato, ogni tortura inenarrabile, erano figlie di un’avidità senza pari. Forse, l’unico aspetto della donna che rasentava il patologico. 

Ma, nella vita di questa ex contadina incolta, imbevuta fino ai capelli di superstizioni e concezioni religiose di spaventosa radice occultista, c’è stato qualcosa di profondamente viscerale e divinatorio allo stesso tempo. La profezia sulla sua vita, come sempre accade a mostri che con la loro perfidia tracciano la parte oscura del mondo, era stata scritta migliaia di anni prima a Roma, sulla lapide trovata nei pressi del colle Esquilino. Quel monte conosciuto come “l’altura delle streghe e dei mostri”. 

“Sono Giocondo, figlio di Grifo e di Vitale. Mi avviavo verso il quarto anno, ma sono sotto terra, mentre avrei potuto fare la gioia di mio padre e di mia madre. Una strega crudele mi ha tolto la vita. È ancora sulla terra, lei, e pratica ancora i suoi pericolosi artifizi. Voi, genitori, custodite bene i vostri bambini, se non volete avere il cuore trapassato dalla disperazione”.

Sembra la più raggelante delle premonizioni sulle orribili gesta di Enriqueta Martì, scritta migliaia di anni prima, in uno dei luoghi più angoscianti del Mediterraneo. Ma, dai confini di un posto che mescolava il mito con la violenza alla vita della vampira di Barcellona, si sono consumati quasi due millenni, senza mai scalfire il cammino del male che, proprio nella donna catalana, trovò la sua espressione più luciferina e malvagia. 

La piccola Enriqueta iniziò presto a pianificare una strategia per entrare nelle case della colta e corrotta borghesia barcellonese. Da “puta de barrio”, semplice prostituta di quartiere, non sarebbe mai riuscita a metter piede nei palazzi del tronfio e manipolabile Novecento cittadino, ma da donna delle pulizie probabilmente sì, perché nella città, economicamente sfilacciata in due parti, c’era bisogno di una “cómplice de la depravación burguesa”, di qualcuno che assicurasse servizi e prestazioni di oscena pedofilia e di contagiosa prostituzione a funzionari, politici, persino avvocati e ricchissimi commercianti della Barcellona prestigiosa.

E così fece. Perché nessuna città, dai sordidi quartieri popolari, è slegata dai mostri che crea. Così come nessun abominio umano riesce a maturare, se non trova la fertilità infettiva di un ambiente urbano malato.

Divenne persino balia e i bambini l’adoravano per i suoi modi pacati e materni. Il mostro, che avrebbe fatto scempio di quelle carni bianche e morbide, la strega che si sarebbe dissetata col sangue dei bambini. La stessa persona, Riqué, come la chiamavano i piccoli che accudiva sulle sue mantelline scure, nella testa aveva una stanza di orrori che riusciva a stento a tener chiusa. 

Si stabilì a Calle Minerva, a pochi passi da quel grande cantiere con le guglie che sembravano sfidare nuvole e sole. Uscendo dalla sua traversa stretta e umida si intravedeva un altro enorme cantiere, sempre pieno di persone ferme a guardare la strana facciata di pietra, erosa da un vento che sembrava soffiare solo sul quel palazzo senza linee rette. La chiamavano La Pedrera.

Spesso, Enriqueta si era fermata a guardare quel grande condominio in costruzione, attratta com’era dalle stranezze, dalle forme fuori dal comune e, soprattutto, dal fatto che la struttura le ricordasse così tanto una chiesa del suo paese di campagna, dove il vento aveva veramente fatto crollare cornicioni e stucchi, rendendo il tempio simile a una faccia alla quale qualcuno aveva strappato bruscamente il naso. Per le strade che circondavano il suo piccolo appartamento, aveva visto spesso quell’uomo della giacca, caduta nel Gran Caffè Torino. Barba bianca e magro, vestiti che erano stati costosi, quando andavano di moda, perché ora emanavano più un’estetica da consumato operaio. Ma era l’incedere di quel signore ad averla colpita, più volte. Lento e distratto, con gli occhi che guardavano sempre al di sopra delle prime linee dei balconi, per le strade del centro barcellonese e le mani lunghe, perennemente infonderate nelle tasche dei suoi abiti sformati. 

Enriqueta non poteva chiedere in giro, perché il suo volto non doveva esser visto da troppi catalani per la strada, ma aveva una curiosità fortissima che la portava a favoleggiare sull’identità di quell’uomo trasandato, dai modi quasi principeschi. 

“Un commerciante caduto in disgrazia”, pensò spesso la giovane prostituta, “con quei vestiti così lisi e sporchi, non sarà certo qualcuno di importante”.

E, invece, la donna che sarebbe entrata dalla porta agghiacciante del terrore, con la locuzione “el demonio entró en el mundo”, il diavolo calato sulla Terra, aveva più volte incrociato uno degli uomini più influenti della storia catalana che, di lì a qualche anno, avrebbe cambiato e influenzato ogni forma artistica del futuro. 

Era l’architetto di Dio, così lo chiamavano, sussurrando al suo passaggio.


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