Dalla pelle al cuore: neurobranding e identità
Questo approfondimento vorrei dedicarlo a come il neuromarketing possa interagire con l’identità del consumatore, quali meccanismi psicologici e psicosociali possano facilitare questa comunicazione e con quali conseguenze. Cercherò di focalizzare l’attenzione sulla biunivocità delle contaminazioni tra identità di marca e consumatore, mettendo in evidenza alcune sostanziali differenze e soffermandomi soprattutto su un meccanismo noto: il mirroring. Concluderò con un richiamo agli aspetti etici, ovvero ai limiti che ci impone una certa deontologia professionale rispetto all’uso e alla manipolazione di leve e di informazioni che potrebbero essere condivise in modo poco consapevole.
I marketer del futuro sono davvero pronti a questa sfida? E soprattutto i consumatori possono in qualche modo proteggersi? In realtà non è possibile ridurre a una semplice equazione etica una relazione ben più complessa in cui brand e consumatore, giocano un ruolo attivo. E su quest’ultimo aspetto che cercherò di costruire una posizione condivisibile che apre le porte verso evoluzioni costruttive (e non distruttive e manipolatorie) del marketing del futuro.
Identità è un concetto di per sé contraddittorio. Da un lato, infatti, rimanda nella sua stessa etimologia al senso di unicità e di identificazione con il proprio sé (idem). Dall’altro lato, nello stesso concetto è racchiusa una dimensione sociale basata sul principio di identificazione con coloro che presentano le medesime caratteristiche uniche. Detto in altre parole:
L’identità prende senso in una dialettica in cui il simile rinvia al dissimile, la singolarità all’alterità, l’individuale al collettivo, l’unità alla differenziazione, l’oggettività alla soggettività.
La letteratura classica distingue infatti una identità sociale da una identità personale.
Con la prima si identificano quei tratti in cui ciascuno si riconosce, ma che sono riconducibili in qualche modo ai processi di socializzazione primaria (in una prima fase dell’esistenza), secondaria (di volta in volta che si procede nello sviluppo). L’identità personale, invece, definisce il nucleo distintivo di riferimento dell’individuo, soggetto anch’esso a evoluzioni e cambiamenti nel corso del ciclo di vita personale. L’identità è distinguibile dalla personalità, intesa come un “complesso sistema di strutture e processi psicologici tramite il quale le persone regolano le proprie azioni e le proprie esperienze”; e anche dal concetto di sé che chiama in causa la relazione con l’altro, mettendo maggiormente in evidenza quel confine tra se stessi e il mondo esterno. Più nello specifico con il concetto di sé si fa riferimento alla percezione dell’immagine che gli altri hanno di noi (sé reale) e a quella che vorremmo effettivamente avere in termini ideali (sé ideale). Questa specificazione linguistica, che nel corso del tempo ha visto l’alternarsi di preferenze per terminologie diverse, mi interessa in questa sede per definire al meglio gli ambiti di azione delle strategie di neurobranding. Sono coinvolti stimoli percettivi, hook cognitivi, processi mnestici che si attivano anche grazie alla relazione che vi è tra il nucleo identitario (identità personale) con l’immagine riflessa che ciascuno di noi tenta di costruire e di raggiungere (sé reale/sé ideale).
La dimensione fondamentale attraverso cui il sé prende forma e trova un senso è il riconoscimento da parte dell’altro. È all’interno di questo spazio che viene giocata la relazione anche con il mondo immaginifico dei brand espresso attraverso la brand identity. Il riconoscimento prende forma attraverso i riflessi, prevalentemente narrativi, che brand e user si scambiano continuamente. La cornice narrativa, di stampo socio-psico semiotico, abbraccia anche le riflessioni intorno all’identità e al sé. La componente narrativa non è riconducibile esclusivamente al racconto o al formato testuale. Precipitati narrativi sono tutte le forme condensate portatrici di senso come le immagini e, soprattutto, gli oggetti.
Ultima coordinata socioculturale a cui vogliamo rimandare prima di entrare nel merito del rapporto tra identità e marca è proprio quella degli oggetti. Già Douglas e Isherwood avevano evidenziato che il significato culturale degli oggetti viene messo in evidenza dalla loro funzione simbolica e dal processo di significazione che lo stesso individuo associa al prodotto, al di là di ciò̀ che la comunicazione pubblicitaria e la marca intendono attribuire.
In genere questo processo di significazione viene messo in essere dall’appropriazione della storia del prodotto/brand nella propria biografia, tanto che Belk ha riconosciuto a questo processo di attribuzione di senso un valore identitario particolarmente profondo: oggetti e marche sono da intendersi come forme di estensione del sé.
Per ricapitolare, i punti chiave da non dimenticare sono dunque tre:
1. identità è un concetto contraddittorio che da un lato rimanda all’idea di unicità, dall’altra a quello di appartenenza a una comunità o a un gruppo sociale;
2. la dimensione visibile e negoziabile con l’esterno è il sé, risultante e risultato di un gioco riflessivo di sguardi con il mondo esterno;
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3. questo mondo è popoloso e popolato di oggetti e brand, la cui unità minima di significazione è rappresentata dalle storie, condensate sotto forma di simboli, immagini, o frammenti narrativi.
Se queste sono le direttrici concettuali che abbiamo tracciato, come è possibile utilizzarle in modo strategico con il neuromarketing?
Direzioni possibili e implicazioni etiche
Il neurobranding ricorre sempre più spesso anche all’uso di tecnologie di tracciabilità dei comportamenti del consumatore. Ne sono esempio i sistemi beacon, ovvero quelle tecnologie che consentono il cosiddetto web-rooming: specifici sensori opportunamente dislocati nei punti vendita possono comunicare direttamente con i dispositivi mobile dei clienti, permettendo agli stessi di attivare notifiche push coerenti con la user experience del momento e favorendo il processo di acquisto. I beacon permettono alle aziende di seguire gli spostamenti dei clienti all’interno del negozio, monitorando quali reparti visitano più spesso e quanto tempo ci passano.
È evidente che un sistema di questo tipo, tra gli altri, da un lato fornisce molte informazioni di profilazione (identitaria) del consumatore, sulla base dei comportamenti, e dall’altro consente di mettere a disposizione dello stesso offerte sempre più personalizzate, in grado di attivare i principi di rispecchiamento descritti nei paragrafi precedenti. Naturalmente non condivido la visione ingenua per la quale il consumatore, stimolato da proposte d’acquisto ad hoc, possa sentirsi in qualche modo condizionato nel convertire il suggerimento in azione vera e propria. Però non possono essere sottovalutati anche gli aspetti etici della conduzione di campagne che utilizzano informazioni così personali e che in taluni casi possono andare pericolosamente al di là del rispetto della privacy.
A inizio 2020 è stato realizzato il convegno Rome call for AI ethics promosso dalla Pontificia Accademia per la vita a prova dell’importanza di adeguate regolamentazioni dei confini nell’interazione uomo-macchina che mettano al centro il benessere, il rispetto e i diritti inviolabili dell’uomo. Illustri esponenti del mondo delle imprese e della ricerca in ambito tecnologico hanno ribadito alcuni principi basilari: trasparenza, inclusione, responsabilità, imparzialità, affidabilità, sicurezza e privacy.
Conoscere il consumatore può facilitare il raggiungimento degli obiettivi di acquisto e contemporaneamente progettare experience in grado di superare le aspettative iniziali, ma conoscere non significa spiare o estorcere informazioni. Comunicare non vuol dire manipolare le menti. Non dimentichiamoci che lo user è parte attiva dell’esperienza che non è fatta solo di stimoli di marketing e di comunicazione strategica. La situazione che si genera è il risultato della relazione dell’individuo con l’ambiente. Ambiente che va anch’esso al di là della mera esperienza, nel nostro specifico caso, di consumo. Pensando all’acquisto o alle pratiche legate a esso, l’ambiente non include esclusivamente modi, forme, artefatti, e contesti che il brand può controllare e manipolare arbitrariamente.
L’individuo è immerso in una realtà più ampia e ben più complessa fatta, per esempio, di esperienze altre che possono influire sul percepito di un nuovo vissuto. Lo user ha a disposizione un pregresso bagaglio di conoscenze e spesso svolge un ruolo attivo nel recupero di informazioni specifiche, prima di un dato acquisto. Ancora, sono sempre più a disposizione del consumer anche le opinioni di altri user che hanno un peso sempre più importante nelle scelte.
Dunque, il meccanismo difensivo, al di là di un comportamento etico da parte dei brand, è rappresentato dalla valorizzazione e dal potenziamento dello spirito critico degli user, sempre più informati, più competenti e più attivi nella co-costruzione di senso dell’esperienza d’acquisto.
Questo articolo è un estratto del box di approfondimento di Alessandra Micalizzi tratto dal mio libro dal titolo: Neurobranding edito da Hoepli.