Dell'anti-storicizzazione

Dell'anti-storicizzazione

È ormai un dato di fatto che la possibilità di iper-controllo delle informazioni reso disponibile dai social network stia portando a una sorta di burnout. Le relazioni sociali sono via via sempre più complesse e il confine tra pubblico/privato diviene ogni giorno sempre più labile. Pensate soltanto a come è sempre più difficile gestire i rapporti lavorativi (con colleghi, superiori, potenziali clienti e via dicendo) all’interno della propria rete di social network. Per quante impostazioni, limitazioni possiate impostare, facebook metterà sempre qualcosa di voi in piazza. E se è già tutto sufficientemente complicato anche senza situazioni particolarmente “compromettenti”, le cose sono ancora più difficili per i teen. Con la mamma, la vicina di casa pettegola, la zia, il cugino di papà, il collega dello zio, la maestra delle elementari nella rete facebookiana, è venuta a cadere la bolla di rifugio, di privacy che la rete rappresentava fino a un paio di generazioni precedenti.

Quando internet ci permetteva di essere chi fossimo davvero dietro a un nickname e a un avatar. Quando ancora pensavamo di essere liberi.

Non stupisce quindi il successo di, per esempio, uno snapchat tra gli adolescenti.

Rimane ovviamente legittimo e sacrosanto il diritto alla propria privacy e al poter essere se stessi, liberi da convezioni e relazioni sociali imposte dall’esterno, almeno in una piccola nicchia nella nostra vita. D’altra parte, stiamo assistendo non tanto a una ricerca di autenticità, quanto a un’insensata rincorsa alla negazione di quest’ultima.

Siamo infatti in una fase storica in cui più si è adulti e più si cerca di sfuggire a se stessi. È l’anti-storicizzazione ciò che sempre più si rincorre. E ovviamente niente è più a-morale del non essere fedeli all’essere, vale a dire a se stessi. Essere che per sua natura non può non storicizzarsi; negare, cancellare il proprio flusso nella storia significa negare l’essere. Le storie "a tempo" ci permettono davvero di creare una narrazione della nostra identità? O non si rischia di incorrere in una continua negazione di noi stessi?

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