"E’ in fase terminale”: sentenza o partenza?
Pressochè ognuno di noi ha sentito pronunciare questa frase riguardante un familiare, un amico, un conoscente. Ed ecco la terra che crolla sotto i piedi, il restare attoniti di fronte alla presa d’atto che nella vita si “può anche morire”. Ma questa consapevolezza matura spesso dopo altalenanti sentimenti di speranza e rassegnazione, ricerca di terzi, quarti pareri, fino alla ricerca dell’oggetto o della sostanza (pendolino o sale che sia) che, “al vicino di casa ha risolto tutti i guai”. Spesso la rabbia, il chiedersi perché “proprio a me” amplificano sofferenze e ricerche di senso, che non sempre si trovano. Ed oltre il danno la beffa: non solo la malattia, ma magari si perde la posizione lavorativa (del malato stesso o di chi si deve prodigare per assisterlo), con importanti ripercussioni socio-economiche, ma si sgretola il proprio ruolo nella società: si diventa dipendenti da terzi anche per gli atti più banali e spesso la solitudine e l’isolamento si accompagnano alla grave malattia nelle sue fasi più avanzate: spariscono in molti (talvolta per la volontà di chi soffre di soffrire intimamente, e ancora esiste anche un senso di vergogna nel vivere la malattia; talvolta è il nostro prossimo ad allontanarsi per l’ inadeguatezza a rapportarsi alla malattia e alla morte). E che dire se poi in quel nucleo familiare ci sono bambini? Come spiegare loro che la mamma, il papà, il nonno stanno per morire…Per non parlare della malattia terminale che colpisce un bambino…
Parlo di tumori, ma anche di malattie neurodegenerative, respiratorie, cardiologiche, renali in fase avanzata, parlo delle demenze gravi e insomma di tutte quelle patologie croniche per le quali non ci sono più spazi terapeutici causali.
Tutte queste riflessioni che appaiono scontate derivano dalle rivoluzioni culturali e tecnologiche che ci hanno fatto diventare “moderni”. Dopo anni e anni di sofferenze, guerre, povertà e rinunce, i progressi nella scienza medica, l’allungamento della vita ci hanno rafforzato l’ego, tanto da farci ogni tanto perdere di vista il concetto del limite e del finito. E se non concepiamo più la morte come “momento della vita” è naturale vivere a 100 all’ora, senza mai porci il quesito “perché NON a me?”
A tutta questa “sofferenza globale” (fisica, psicologica, spirituale e sociale) bisognerebbe poter dare una “risposta globale”. Ma la cosa sarcasticamente sorprendente, è che accanto alla medicina che propugna il modello di guarigione (e che dunque non può concepire la morte che non come un fallimento), ce n’è un’altra che sostiene il “to care” (il prendersi cura), accanto al tradizionale “to cure” (il guarire). E’ la medicina palliativa che già da qualche anno in Italia (legge 38/2010) dovrebbe entrare nei LEA (livelli essenziali di assistenza: le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini). La medicina palliativa vede la malattia non solo come evento biologico (“disease”), ma come evento vissuto (“illness”) da quell’individuo; è quindi la “cura totale” alla persona malata (ma anche alle persone di riferimento per quella persona) che si articola di competenze multidisciplinari ma assolutamente integrate (medico, infermiere, operatori socio sanitario, psicologo, assistente sociale, assistente spirituale, volontario). Il fine ultimo è perseguire la “miglior qualità di vita possibile per quella persona (prospettiva soggettiva)” con un’ottica multidimensionale.
Forse allora, vedendo tutto da un’altra prospettiva, quando si entra nella “fase terminale” si può pensare ad una partenza verso una dimensione dove bisogna, citando Cicely Saunders (fondatrice dell’Hospice moderno), “preoccuparsi di dare più vita ai giorni che giorni alla vita”.
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Denise Vacca – medico palliativista (scritto del 2017)