Finanza & caffè - 27 dicembre
Al di là delle considerazioni prettamente “politiche” e sulla “eticità” della persona a ricoprire il ruolo di Presidente del Paese più forte al mondo, non c’è dubbio che l’elezione di Trump possa essere considerato il vero elemento “disruptive” dell’anno che sta per finire: mai, probabilmente, la discontinuità tra due amministrazioni è stata così evidente.
“L’attesa” è una componente importante della nostra vita, e spesso, come ci ha insegnato Giacomo Leopardi, i “preparativi” sono i momenti più intensi e più coinvolgenti.
Si potrebbe quindi affermare che oramai il mondo viva “nell’attesa” del 20 gennaio, data in cui il Presidente eletto si insedierà alla Casa Bianca. Peraltro, già in queste settimane è, agli occhi di tutti, il Presidente “de facto” (significativo il fatto che, per esempio, il 7 dicembre, fosse lui presente alla riapertura di Notre Dame, e non Biden, che ha ben pensato di mandare la moglie Jill. Pur non “esercitando” il potere, la sua “moral suasion” oramai è piuttosto evidente. Nulla, evidentemente, è casuale: le sue parole non sono affermazioni fatte in “libertà”, ma fanno indubbiamente parte di una strategia per arrivare ad una “partenza lanciata” del suo mandato (anche se cambiare “l’apparato” richiederà tempo e fatica).
Più di tutti sembra averlo capito Putin, anche se le cancellerie di mezzo mondo, stanno studiando le “misure” da adottare per far fronte nel migliore dei modi a quanto potrebbe verificarsi se i fatti subentrassero alle promesse.
Non a caso, non più tardi di ieri, ha dichiarato che la guerra deve finire e che è pronto (ovviamente dopo il 20 gennaio) a sedersi al tavolo delle trattative per arrivare ad una soluzione di pace (peraltro affrettandosi a sottolineare “una volta che saranno stati raggiunti gli obiettivi”, frase che sembra quasi più rivolta ai suoi sostenitori che non agli avversari. Parole che “fanno il paio” con quanto da tempo sostiene Trump (che ne ha fatto uno dei “leitmotiv” della sua campagna elettorale), vale a dire che, una volta eletto, in 2 giorni troverebbe un accordo.
Ma il “tycoon”, come ben sappiamo, non si limita solo quello.
L’altro “punto cardinale” è l’economia.
Il suo Make America Great Again si basa, sostanzialmente su 2 fattori: la geo-politica (e quindi la politica estera, tornando ad esercitare quel ruolo di “king maker” che gli USA hanno, in passato, esercitato con successo) e, appunto, l’economia. Una leadership, in questo ambito, già oggi universalmente riconosciuta, ma che Trump vuole ribadire a tutti i costi, dazi o non dazi. Parafrasando il pugilato, oggi gli USA, immaginando la UE (ma potremmo benissimo prendere a riferimento la Cina) vincerebbe per Ko tecnico: il PIL (quest’anno dovrebbe chiudere intorno al + 3%) per l’anno prossimo è previsto al + 2/2,5%, mentre in Europa “arrancheremo” non poco per arrivare all’1%. Il $ si sta avvicinando alla parità verso € (fatto che potrebbe, sotto certi aspetti, vanificare l’introduzione dei dazi: infatti Trump vorrebbe dichiaratamente un $ più debole), a ribadire la forza dell’economia americana. Lo stesso Powell è indotto a “frenare” la sua politica monetaria “distensiva” appunto per lo “strapotere” americano (con l’aggravante dell’inflazione che rimane elevata).
Guardando “oltre” l’Europa, anche il rapporto con la Cina, al momento, conferma lo strapotere americano.
Il differenziale di rendimento tra i titoli governativi tra i 2 Paesi, per esempio, ha raggiunto i livelli del 2000, quando si aggirava sui 300 bp (5 anni fa era a favore del “dragone” per circa 250 bp); se l’economia Usa viaggia “a pieno regime”, quella cinese continua la sua fase critica, con lo spauracchio della deflazione e della stagnazione economica. Con i consumi interni ridotti “al lumicino”, tutto si poggia sull’export: lo sa bene il futuro Presidente americano, che continua a “sventolare” la bandiera dei dazi (nel caso cinese al 60%), quasi a voler mettere in un angolo il suo avversario.
Tutte ragioni che stanno facendo pensare che anche per il 2025 i mercati americani, anche se non in modo “debordante” come durante quest’anno), hanno buone possibilità di “battere” gli altri indici: iniziano a girare anche le prime” percentuali. Ma prima di “dichiararle” è opportuno assumere qualche informazione in più.
Riaprono, dopo la pausa natalizia, i mercati europei, mentre quelli asiatici hanno, nei giorni scorsi, continuato gli scambi.
Questa mattina spicca, a Tokyo, il Nikkei, in rialzo dell’1,80%, aiutato dalla debolezza dello yen
Sulla parità i principali indici cinesi (a Hong Kong Hang Seng + 0,10%, Shanghai piatta).
Consigliati da LinkedIn
Debole, a Seul, il Kospi (- 1,02%).
Taiex Taiwan + 0,12%.
Mumbai in lieve rialzo /- 0,17%).
Leggermente deboli i futures, con perdite contenute al – 0,20/0,30%.
Petrolio poco mosso (WTI $ 69,76, + 0,09%).
Gas naturale Usa $ 3,415 (+ 2,74%).
Oro $ 2.652 (- 0,14%).
Spread a 116,5 bp.
BTp al 3,50%.
Bund 2,33%.
Treasury Usa 4,577%.
€/ 1,0411.
Bitcoin $ 96.380.
Ps: la crisi dell’automotive è una zavorra pesantissima, che sta limitando la crescita in molti Paesi, arrivando a mettere in discussione la “transizione green” verso l’elettrico.
Una crisi, però, non per tutti. In Cina, infatti, per la prima volta, le immatricolazioni di auto elettriche supereranno quelle con motori tradizionali, con un incremento del 20%, arrivando, comprese le plug-in, a 12 ML (erano 5,9 Ml nel 2022). E si sta parlando, comunque, di un Paese la cui economia non splende. La conferma che la “sensibilità” verso la transizione green dipende in gran parte dal prezzo. Una “competizione” oggi impossibile in Europa (per non parlare della manutenzione e dello smaltimento).