God Save The Fed….. e gli Stati Uniti
Una "nuova" fase della politica monetaria si prospetta all'orizzonte?
In un recente webinar sull’andamento sui mercati, ho domandato ad un noto gestore di un’importante SGR quanto potesse resistere l’attuale livello dell’indicatore P/E Shiller dei mercati azionari americani, attualmente a 39,64, che era stato su questi valori solo un’altra volta nel periodo della bolla internet del 2000.
L’arguta risposta che mi ha dato il Gestore è che l’indicatore in questione ha perso di importanza perché gli attuali indici del mercato USA sono composti da aziende i cui valori di bilancio e reddituali derivano principalmente da asset immateriali e non era, quindi, più rappresentativo della totalità del mercato, ma solo di quella parte di aziende legate al business tradizionale, poco significative nel complesso. Una variazione del pensiero imperante che “questa volta è diverso”.
Ma cos’è il P/E Shiller?
Il P/E Shiller è uno degli indicatori costruiti da Robert #Shiller, noto economista americano, Premio #Nobel per l’economia 2013. Nella fattispecie, questo indicatore (il rapporto prezzi/utili medio degli ultimi 10 anni, corretto per l’andamento del ciclo economico) ha lo scopo di esprimere, in un dato momento, quanto il mercato azionario è sopra o sottovalutato rispetto alla sua media storica. La serie infatti copre ben 141 anni del mercato azionario americano, in cui si sono vissute situazioni di sviluppo tecnologico analoghe a quella attuale. Copre ad esempio l’avvento del motore a scoppio, della telefonia, dell’invenzione dell’aereo, di tutte le scoperte del dopoguerra, della nascita ed evoluzione di internet, che nulla hanno di diverso, per la storia umana, a quella che stiamo vivendo ai giorni nostri. Come pure copre tutte un ampio ventaglio di condizioni finanziarie degli ultimi 141 anni, dalla nascita della Federal Reserve, alla grande depressione del ’29, all’adozione degli accordi di Bretton Woods, al loro abbandono nel 1971, al periodo dell’iperinflazione degli anni ’80 del secolo scorso, ma anche l’attuale periodo di distorsione delle politiche monetarie con QE infiniti, che ci sta accompagnando, dal crollo dei mutui sub-prime del 2008. Il P/E Shiller, non è, quindi, predittivo, ma ha il semplice scopo di indicare il livello di surriscaldamento del mercato, rispetto ai fondamentali storici. Si potrà discuterne del valore relativo attuale, non della sua utilità.
In base a questa impostazione, su #Fortune dello scorso 14 luglio 2021 è comparso un bell’articolo, in cui veniva evidenziato che solo in un 4% del periodo di rilevazione considerato (141 anni) il P/E Shiller è stato più elevato di 38,39 e che l’unico precedente in cui si è registrata una rilevazione così alta, era stato per i 23 mesi successivi al dicembre 1998 (quando raggiunse per la prima volta i 38,82), che culminarono con lo scoppio della bolla internet del marzo 2000.
Nell’articolo, per marcare la differenza con l’unico altro precedente della storia ed indicare che il mercato potrebbe ancora salire, si fa riferimento come metro di valutazione alternativo, ad una derivata del P/E di Shiller, l’excess CAPE Yield, che nel 2000 era arrivato all’1,09%. L’attuale valore (un po’ più basso di luglio 2021) è al 3,03%. Questo indicatore tiene conto dei rendimenti reali dei Titoli di Stato USA a 10 anni, che sono in territorio ampiamente negativo (-1,11% sul tasso CMS a 10 anni) mentre, allora, erano all’1,58%. Il premio al rischio sembrerebbe, quindi, ancora favorevole ai mercati azionari, non per convenienza assoluta, ma, principalmente per mancanza di alternative (effetto T.I.N.A., there is no alterntive).
Altre differenze sostanziali possono si derivare dalla composizione attuale dell’S&P500, senza alterare però la rappresentatività dell’indicatore. Le prime 10 società per peso nell’indice, principalmente i colossi tecnologici, da #Amazon a #Tesla, hanno, infatti, valutazioni fondamentali fuori scala e ne alzano il valore assoluto.
Le principali insidie del 2022 che potrebbero portare ad un ridimensionamento delle quotazioni e quindi ad un rientro dell’indicatore (non dovuto all’incremento degli utili) possono essere individuate ne: 1) il rallentamento dell’economia, 2) l’inflazione 3) sorprese negative dal fronte degli utili e societarie, principalmente nei colossi tecnologici, parafulmine di tutte le stagioni.
Un eventuale rallentamento economico renderebbe il mercato ancora più caro in termini assoluti e relativi, in un momento di riduzione degli stimoli monetari.
L’andamento dell’inflazione potrebbe creare difficoltà sia in caso di andamento al rialzo che di ritorno verso valori più bassi.
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Al rialzo, per la pressione sulle Banche Centrali perché, a loro volta, rialzino i tassi di mercato ed accelerino il rientro degli stimoli monetari.
Al ribasso, come auspicato e previsto dalle Banche Centrali, perché causerebbe un rialzo dei tassi reali, che per paradosso, potrebbe rendere le valutazioni azionarie più care, in termini relativi, rispetto ai livelli attuali.
Eventuali sorprese nei conti dei colossi tecnologici sul fronte degli utili societari, non sono attualmente ponderabili.
Il feticcio di un rialzo dei tassi a breve, infine, non è all’orizzonte, con la #FED intrappolata dopo aver creato una massa monetaria M2 pari quasi al 93% del PIL e con la necessità di ritirare giornalmente oltre 1.500/MLD di USD, con operazioni di reverse REPO, per risolvere l’ingorgo di liquidità che non riesce più a trovare impiego nel mercato. Non si può pensare, infatti, che la FED abbia alcuna intenzione di rovinare il giochino da lei stessa costruito con tanto dispendio di risorse e voglia evitare quanto provocato nell’ultimo trimestre del 2018 con un rialzo dei tassi di interesse che provocò un calo dei mercati azionari del 20%.
Se guardiamo gli ultimi anni sembra proprio che sia stata la liquidità il principale motore della crescita del valore di tutti gli asset negli USA, non solo delle azioni (attraverso l’espansione dei multipli), ma anche del mercato immobiliare, con i prezzi ai massimi storici, ed al fenomeno delle criptovalute (anche loro affini allo scopo finale), che hanno trasformato gli USA in un grandissimo Casinò senza regole. Quando è più il denaro dei beni in cui investire, è logico che i prezzi aumentino.
Lo scopo ultimo potrebbe essere proprio questo, anche a scapito delle vecchie regole di funzionamento dell’economia, espandere la torta della ricchezza, così da creare un effetto benessere che sostenga, a sua volta, il consumatore americano, da cui dipende oltre il 70% del PIL. Un metodo per perpetrare lo status quo, particolarmente gradito alla politica in modo bipartisan, che non è costretta ad incidere sulle condizioni economiche dei propri cittadini elettori con vere manovre redistributive, ma aumentando semplicemente la spesa pubblica che viene monetizzata dalla Banca Centrale, secondo quanto prescritto dal Modern Monethary Theory.
Non credo che la possibile sostituzione il prossimo anno dell’attuale governatore della FED Powell, con l’ancora più colomba Lael Brainard possa cambiare il quadro di fondo.
Il tutto pare più la parafrasi moderna di quanto attribuito a Maria Antonietta nei confronti del popolo affamato: “non hanno pane, dategli delle brioches”. Forse sarebbe meglio si leggessero Pinocchio di Collodi.