I social hanno ucciso la comunicazione?
Il mio segnalibro di oggi si chiude su Come i social hanno ucciso la comunicazione, di Guido Bosticco e Giovanni Battista (Titta) Magnoli Bocchi (et al., Guerini 2020). Sarò sincera: di solito questi titoli provocatori sul mondo dei social nella letteratura di settore mi lasciano sempre un po' perplessa, ma conoscendo gli autori e il loro acume ho deciso di andare oltre la copertina e buttarmi con curiosità nella lettura. Lettura che consiglio e che a tratti mi ha fatto pensare a questo saggio agile e scorrevole come a un necessario libro di testo per gli studenti, delle scuole superiori e dei percorsi universitari in comunicazione, per capire in modo chiaro la bolla del confirmation bias e quindi imparare a comunicare in modo più indipendente dai social-algoritmi e soprattutto dall'approvazione di un pubblico che in realtà è un target automaticamente profilato e tendenzialmente approvante.
Il capitolo che mi ha colpito di più e che probabilmente rileggerò ogni tanto come memo, è quello a cura di Roberta Franceschetti laddove indaga e riflette su come comunica la #generazionez e su come comunicherà la generazione Alpha: un tema sul quale chi come me si occupa di strategie di comunicazione e marketing deve continuamente aggiornarsi. Interessantissima l'operazione di debunking sul pregiudizio per cui i nativi digitali non siano più capaci di concentrarsi, mentre forse è arrivato il tempo di cambiare prospettiva e semplicemente ri-organizzare il modo di raccontare, magari ispirandosi agli schemi narrativi delle serie tv e proponendo messaggi pensati per essere assorbiti da una tipologia di attenzione multi-focale, piuttosto che assente.
Per quanto riguarda invece il tema centrale del saggio, ovvero l’analisi di come, per andare incontro a un modello di comunicazione dove le regole del gioco sono scritte appunto dagli algoritmi dei social, si sia perso di vista il senso di ciò che si dice pur di esserci in qualche modo, personalmente ritengo che almeno lato agenzie di comunicazione questa consapevolezza sia già maturata e si traduca in strategie che spesso si focalizzano sulla ricerca di una brand identity autentica. E onestamente devo dire che anche nei brief che arrivano dai clienti questi richiami si trovano. Il problema è che poi in questo delicato disegno che è il posizionamento si inserisce lo spettro dei numeri, delle metriche, dei kpi a tutti costi, ed ecco che i social tornano a fare la parte del leone, perché l’audience che permettono di raggiungere fa troppa gola a chi vuole promuovere un prodotto, un servizio, un’idea. Ma se l’audience mette like solo a ciò che rientra nella sua bolla di approvazione, ecco che il brand vorrà di nuovo adattare il messaggio… e così via. Come si legge in chiusura, “Ritroviamo il fossile profondo della nostra esistenza”: nel caso dei brand, non smettiamo mai di pensare alla loro vera identità e a che cosa abbia senso comunicare. Ma al tempo stesso credo che vada aggiunta un’altra parola chiave: equilibrio. Quell’equilibrio che permetterà di traghettare le nostre coordinate strategiche in un piano media che per necessità dovrà comunque essere misurabile ed efficace.
... e comuque gran grafica la copertina!
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4 anniGrazie Giulia! Sottoscrivo tutto ciò che hai detto!