Il caso ebraico
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Il caso ebraico

Il 27 gennaio ricorre La giornata della memoria. Per onorarla, tengo a riportare qui il punto di vista di Giacomo Debenedetti, scrittore e saggista di origini ebraiche, che nel suo libricino intitolato 16 ottobre 1943 (una delle fonti utilizzate da Elsa Morante per La Storia) racconta il rastrellamento del ghetto di Roma, aggiungendo importanti riflessioni sul finale:

Sotto i nazi, gli ebrei si sono sentiti, e si sentono, il soggetto o il predicato, il nominativo o l’accusativo o il dativo di uno slogan di morte: ‹‹scacciamo gli ebrei, sterminiamo gli ebrei››. Tra gli uomini che si avviano a ridiventare liberi, si sentono daccapo, con un parallelismo impressionante, gli accusativi o i dativi di uno slogan benefico: ‹‹salviamo gli ebrei, ricompensiamo gli ebrei››. Dativi o accusativi: cioè, come insieme l’analisi logica, dei ‹‹casi››. Ciò che li preoccupa che li mette a disagio è appunto di rimanere un caso: l’eterno, irrimediabile caso ebraico.

Come risolvere, allora, questo caso ebraico? Sopravvivere, per gli ebrei, non ha significato automaticamente continuare a vivere o tornare a vivere e non hanno mai desiderato un occhio di riguardo perché non hanno fatto nulla per guadagnarselo, come non hanno fatto nulla per "guadagnarsi" una persecuzione. Ancora una volta è Debenedetti a chiarire questo punto, servendosi, a sua volta, di un esempio:

Una sera, nei tempi più neri del diluvio, Bernardo Berenson si poneva l’eterno problema: perché gli ebrei rimangono ebrei, malgrado il ciclico ritorno delle persecuzioni? E rispondeva con un suo ricordo siciliano. Trovandosi in altri tempi a visitare le pendici dell’Etna, ne ammirava la feracità da Terra Promessa. Qualcuno però gli disse che periodicamente la lava scende a incenerire quei campi. ‹‹E perché allora li coltivate?›› domandò ai contadini. ‹‹Perché quando ai tempi tornano buoni, voscenza, così buoni sono che ci ripagano di qualunque malanno››. Questo, commentava l’eminente scrittore, spiega per analogia la tenacia degli ebrei nel sopravvivere. […] Ma Berenson non si dorrà se ora, al ritirarsi della lava, la sua storia ci piace un po’ meno. Vorremmo dire che gli ebrei, non è che si inarchino sotto le sciagure degli anni delle vacche magre, per aspettare che rivenga il settennio delle vacche grasse. Sono uomini, certo, e amano anche loro la sicurezza, il benessere, magari la felicità. Le vacche magre non piacciono neanche a loro. […]
Né troppo magre, né troppo grasse. Una cosa giusta.

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