Il coaching Organizzativo,
Il coaching è simile alla danza, ha le sue figure, ma ci sono differenze, a volte impercettibili. Il risultato è unico e si produce sulla relazione.

Il coaching Organizzativo,

come lo pratico nelle imprese per i manager.

Tra gli interventi che ho sviluppato e praticato negli anni ed a diversi target, da giovani a disoccupati, neo-imprenditori ed amici in crisi (che non ti stanno esplicitamente chiedendo un consiglio, ma ti raccontano con una certa dovizia di particolari cosa fanno, quali strategie ed interventi hanno intenzione di attivare e con domande e silenzi d’attesa varie, altri in modo diretto, chiedono), c’è il coaching. Lo ripeto e lo confermo, non c'è bisogno di qualcuno che mi validi la competenza in questione, però potrebbe essere che quel che intendo io come coaching in realtà non lo sia. Così, al di là del nome, approfitto di questo spazio per descriverne uno in particolare rivolto al mondo aziendale e che utilizzo quando tra gli obiettivi di consulenza compare la leadership e le figure manageriali: il coaching organizzativo.

In partenza

A volte l’avvio dell’intervento non comincia con il primo incontro, bensì da una richiesta “da sopra”, solitamente espressa come un tentativo di far tornare nel gregge la persona, o di “aggiustarla” e di far sviluppare competenze di gestione del personale e di leadership, o di sé.

Una specie di formula del “si fa così”, cercando di essere normativi, ma non troppo. In questa fase ho quindi cura di ribadire quanto il percorso in realtà non volge univocamente all’apprendimento di qualcosa di dato, da una scatola che mi porto appresso di “buon management”, ma che per la natura stessa di quanto viene trattato, la persona e le sue relazioni, il lavoro passa attraverso degli step che non possono essere elusi. Soprattutto ribadisco che il mio intervento non è in alcun caso di natura manipolatoria e perché vi sia un genuino cambiamento della situazione bisogna accettare anche che questo sia inaspettato, che possa portare a qualcosa di diverso e che sarà deciso dalla persona con cui farò l’intervento formativo.

 

Le variazioni possono produrre stili nuovi, formule per lo sviluppo e la crescita autentica.
Se volete un cambiamento e volete che non sia manipolatorio o essere etici, bisogna accettare che il cambiamento possa portare all’inaspettato, al diverso.

 Altrimenti è possibile fare il corsetto, senza ascoltare l’altro, magari di 4 ore, anzi 2 che c’è tanto da lavorare, per comprendere la routine, la procedura, ripetibile e con poche variazioni e se vi sono, che rispecchino anche quelle il previsto, magari identificabili con dei colori, rosso, blu, verde e giallo e per ogni colore far corrispondere una risposta preconfezionata, come la personalità. L’utilità? Forse far sentire qualcuno più sicuro.

 

Balli e teste diverse producono composizioni uniche

Ogni categorizzazione, semplifica, non corrisponde alla realtà, se lo sappiamo non ignoriamo la complessità e ci apriamo allo sviluppo e a quello spazio di crescita, di benessere, alla possibilità. L’intervento individualizzato che io propongo parte da un setting aperto, volto a identificare i confini, il contesto per esplorare e spezzare le categorizzazioni inconsapevoli. Anzi, farle emergere come etichette e trattarle come tali, svelando il sé per ri-conoscere le relazioni all’interno ed all’esterno dell’organizzazione.

 

Il viaggio che propongo nelle 1 to 1 è inizialmente di esplorazione di sé, dei propri valori e delle proprie visioni, degli obiettivi personali e istituzionali, dei propri interessi e delle modalità interpretative, degli stratagemmi e dei possibili sistemi che vengono messi in atto al lavoro nella relazione. Tutto all’insegna della possibilità, della libertà e della riappropriazione della scelta. Perché quando stiamo in una situazione negativa o confusa, è probabile che non sappiamo come uscirne, o lo avremmo già fatto. Solitamente ci si sente all’angolo, o stretti quando invece si vorrebbe prendere il volo.

Quando ti vedi, inizi a vedere l'invisibile 

A conclusione dei primi 2-3 incontri, alla persona si aprono delle strade diverse, ovvero si dà la possibilità di essere qualcosa di diverso, ne vede l’opportunità, dove prima tutto sembrava già prestabilito, il proprio ruolo, il percorso, il carattere, lo stare in quel luogo. Ci si apre al possibile, a vedere che si ha nuovamente il potere di decidere e di non dover per forza corrispondere a delle aspettative, ma adattandole o trasformandole nel rispetto e rispecchiamento di ciò che si è, ciò che si desidera, al proprio progetto professionale, magari da poco scoperto o chiaramente formulato e condiviso (proprio in quei primi 2 o 3 incontri precedenti).

 

Il momento di rompere le regole è anche quello maggiormente generativo.

A questo punto si hanno le prime linee di chi si è e di cosa si sta vivendo, si procede con una autovalutazione, una riflessione sul proprio ruolo, secondo i propri significati e lo si confronta con la realtà organizzativa, interrogandola nei suoi vissuti e nelle sue forme, nei suoi valori ed obiettivi. Si fissano, inteso come sguardo, nuovamente gli obiettivi e si discutono i risultati, questa volta in maniera più sistemica, con un set di strumenti atti a permettere nuovi apprendimenti e consapevolezze.

 

Non ti dico come fare, perché tu sei il soggetto attivo che riflette e sperimenta, consapevolmente autentica ed attenta. Qui si inserisce propriamente la seconda fase del coaching organizzativo: dopo l’attivazione ed il riconoscimento dell’apprendimento di/per sé, si passa a svolgere questo ruolo di abilitatore dell’apprendimento per altri, non più in maniera occasionale o “perché capita”, lì per lì, ma in maniera strutturata, per permettere l’intelligibilità e il terzo finale passaggio di evoluzione del percorso. Cioè, per capitalizzare nel sistema il buono, si cresce la parte del manager che è agente del cambiamento e del benessere, finora ottenuto per sé e per il proprio team, rivolto questa volta all’organizzazione.

Conclusioni

Non è un percorso per i deboli di cuore o per organizzazioni impaurite dal dialogo. Ci vuole coraggio e volontà per confrontarsi e realizzare il benessere organizzativo. Se l’impresa è matura ed adulta, e non è bislacca, o tenuta da persone insicure che necessitano di prevaricare gli altri per affermarsi, che fanno la voce grossa per dimostrare chi comanda (si fa come dico io perché qui comando io, sono gli altri che non capiscono, solo i fedeli sono le persone giuste), allora il cambiamento è genuino e prolifera, irrobustisce l’organizzazione per lo sviluppo e la crescita.

 

Ripensare ai luoghi di lavoro come spazi di ballo? Why not?

L’autonomia del cliente rimane chiave del percorso. Io lavoro perché non abbiano bisogno di me. La costruzione successiva o in itinere di strumenti ad hoc (magari integrati con il sistema della qualità, il MOG e quant’altro), la creazione di spazi di riflessione più ampi che coinvolgano il personale, l’attualizzazione di prassi, la nascita di una cultura della cura attenta al benessere organizzativo a tutti i livelli, richiede poi ulteriori passaggi o teste.

Posso divergere dallo standard perché comprendo strumenti, singolarità ed unicità dell’individuo e dell’organizzazione. 

Diverse serrature, chiavi diverse: seppure mi piaccia venir considerato un coltellino svizzero per le imprese, non sono solo e mi sto circondando di altre teste per riflettere e proporre la massima qualità.

 

Io ci sono e tu?

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