Il perfezionista
Uno spettro si aggira nelle menti dei bravi ragazzi che sono stati bravi studenti e sono arrivati alla soglia della vita professionale pieni di aspettative su se stessi: il perfezionismo.
Essere perfetti, non sbagliare nulla, avere sempre la risposta giusta ad ogni domanda, essere ordinati e precisi, sono alcune delle aspettative dei perfezionisti. I quali credono fermamente che la propria ambizione di perfezione coincida con il lavorare bene.
Purtroppo, nei luoghi di lavoro che funzionano, il perfezionismo è una strategia fallimentare e a tratti devastante per chi la pratica e per le persone attorno che la subiscono.
Per ogni persona, ad ogni grado di bravura, preparazione e ambiente professionale in cui opera vige il principio di Pareto: il 20% del tempo e delle energie è sufficiente per raggiungere l’80% dei risultati mentre l’80% dello sforzo è necessario per raggiungere l’ultimo 20% del risultato. Ottenere la perfezione ha quindi un costo sproporzionato rispetto ad ottenere un buon risultato. Vi sono alcuni mestieri dove la perfezione è necessaria: un concertista di musica classica, un campione sportivo, uno scrittore, sono alcuni degli esempi in cui la perfezione paga. Ma sono tutti esempi di winner-take-almost-all in una competizione individuale con altri.
Nelle aziende e facendo mestieri complessi insieme a molte altre persone ci si deve fermare quasi sempre al primo 20% di sforzo e andare oltre, accettando gli eventuali difetti del non raggiungere la perfezione. Meglio qualcosa fatto ora che la perfezione tra molto tempo. Perché semplicemente in quel tempo, chi usa il principio di Pareto di cose ne avrà fatte molte altre quando il perfezionista è ancora alla prima. Questo significa ad esempio che si sarà potuto sbagliare molto e quindi imparare molto.
Non lavorare per la perfezione non significa lavorare male, o in modo disattento e senza passione. Tutt’altro. Proprio perché non ci si da il tempo per raggiungere la perfezione l’intensità con cui si deve lavorare è massima. Bisogna aprire tutti i propri pori intellettuali e umani per raccogliere le informazioni nel modo più efficace possibile. Bisogna imparare ad ascoltare il proprio stomaco, fidandosi di quello che ci dice ed eventualmente analizzando dopo quando ci ha portato sulla strada sbagliata, per imparare ad avere miglior fiuto la volta successiva. Bisogna sviluppare nel tempo euristiche efficaci che ci permettono di semplificare l’analisi e andare al sodo della questione. Si devono sviluppare acuti sensi per i colli di bottiglia e lavorare quasi esclusivamente su quelli lasciando perdere il resto fino a che non sarà più un collo di bottiglia e quindi ce ne sarà un altro su cui balzare.
Per il perfezionista entrare dentro questa modalità di lavoro rappresenta una sofferenza acuta. In generale non capisce neanche la ragione per cambiare ed entra nel panico quando vede che gli altri attorno lavorano così. La lentezza con cui fa le cose gli mettono il sospetto che debba cambiare qualcosa. Ma solo dopo aver sbattuto la testa molte volte se ne convince definitivamente.
Famiglia, Scuola e Università passano 25 anni a formare dei perfezionisti. Il lavoro in ambienti efficaci ci mette qualche anno a rimettere in discussione questo imprinting.
𝐏𝐫𝐨𝐣𝐞𝐜𝐭 𝐌𝐚𝐧𝐚𝐠𝐞𝐫 presso SoftJam SpA
5 anniAnche io all'inizio della mia carriera ero un perfezionista ! Poi come giustamente rilevato mi sono dovuto confrontare con due variabili : il tempo e le altre persone. Il tempo è stata una variabile fondamentale con la quale nel corso della mia carriera ho imparato a convivere. Ho cercato progressivamente di conciliare il mio perfezionismo raffinando la mia sensibilità nella gestione delle situazioni nel trovare subito la risposta ai problemi. In una seconda fase, valutare in modo critico quanto fatto e provare a fare evolvere, se necessario, la soluzione, integrandola con le esigenze che magari nel frattempo sono mutate. Con un allenamento continuo sono arrivato a gestirmi ed avere anche delle soddisfazioni. Il secondo tema sono le persone. Parto da un presupposto ovvio ma che molti, ed i perfezionisti più di tutti, trascurano. Nessuno potrà mai essere quello che siamo nella mia nostra esperienza e capacità. Quindi occorre vedere le persone su un piano diverso nel senso che, avendo chiaro un obiettivo, devo capire subito per quali capacità e con quale reattività possono contribuire alla riuscita di un progetto, accettando anche le variabili personali. La condivisione ed il confronto continuo sono una buon approccio in questo senso, che mi ha permesso oltre che rispondere alle esigenze del momento, di fare crescere le persone con cui ho collaborato, ma di arricchire anche me
La logica Lean mi piace. Mi piace molto. Ma ad una condizione. Che quello che si è realizzato subito e con il 20% non produca, poi, ostacoli enormi alle evoluzioni ulteriori. Senza un occhio al medio termine quello che produci oggi può essere la ragione del tuo collasso domani. In vita mia ho visto molti casi in cui, per ogni 100€ spesi, 90 servono per smontare decisioni superficiali precedenti e solo 10 per creare nuovo valore. Ergo: lean ma con la barra sempre all'obiettivo finale.
Ex Sistemista senior e DBA senior
5 anniMolto d'accordo. Già diversi anni fa criticavo il detto "Abbiamo fatto 30, facciamo 31". Dove "facciamo" eravamo noi operativi, mentre chi parlava non ne faceva parte. La mia critica era "Dipende! Se per andare da 30 a 31 devo fare lo stesso sforzo che ho fatto da 0 a 30, allora no! Preferisco impiegare quell'energia per fare da 0 a 30 su qualcos'altro." Tenicamente questa si chiama "efficienza" ossia un buon rapporto tra risultato (al nominatore) e sforzo (al denominatore). L'efficacia è invece un risultato incisivo, indipendentemente dallo sforzo fatto. Sforzo che può essere molto grande, e a volte, come tratta nel Suo articolo, eccessivo.