Il Signore delle Formiche e gli occhiali del genere - un'analisi del film sulla condanna di Aldo Braibanti

Il Signore delle Formiche e gli occhiali del genere - un'analisi del film sulla condanna di Aldo Braibanti

Il Signore delle Formiche racconta una “brutta storia italiana”; è liberamente ispirato al caso di cronaca sulla condanna di Aldo Braibanti negli anni ’60. Lontano da ogni riproduzione documentarista, il racconto di Amelio vuol ricordare allo spettatore contemporaneo che è esistito un dramma, dai toni assurdi, a due uomini, solo perché hanno intessuto una relazione.

Questa ferita italiana è raccontata, però, come una fiaba drammatica che ha un idillio inziale, che si sviluppa nella tragedia dei due, e si chiude ancora con un’atmosfera rarefatta. Azzardo il termine “fiaba” (appellandola con l’aggettivo “drammatica”) perché uno dei due protagonisti, Ettore, sembra provenire da un mondo incantato; la sua purezza, creata dal regista, simboleggia l’innocenza della giovinezza, l’emblema dell’animo che non si corrompe, la forza di chi sogna: Ettore rimarrà così fino alla fine del film, nonostante tutto quello che gli accadrà ed è, a mio avviso, il tentativo del regista di muovere ad ideale ed universale la vita particolare di un ragazzo, astraendolo dalla prosaicità della vita, della disgrazia, delle brutture, ma astraendolo ed estraendolo anche dalla narrativa dell’omosessualità.

Non è un caso la scena della festa romana, dove Aldo Braibanti porta il suo amico-discepolo-amante. Ettore scappa dal party dopo le avance di un fotografo e dopo aver visto ballare tanti artisti famosi imbellettati di piume e collane: “Non me l’aspettavo” è la battuta che pronuncia Ettore verso Aldo “tutti quegli eccessi, perché?” Aldo, allora, spiega che “lui non è come loro, ma è come loro”, e che “quando gli omosessuali sono fra loro cadono le inibizioni e possono essere fuori le righe”. E qui sembra aprirsi il contrasto fra la purezza fiabesca di Ettore e il mondo romano, un mondo appena accennato nell’economia del film quanto basta per ricordarci che le relazioni omosessuali possono essere anche quelle del vino, del divertimento, del sesso, della maschera, mentre i due protagonisti ancora non hanno consumato alcun rapporto sessuale. In quella casa romana si festeggia il compleanno del miglior amico di Aldo Braibanti, amico che al filosofo dice, prendendolo un po’ in giro: “Neanche un pompino gli hai fatto ancora? Ah, beato te che sei innamorato!” rafforzando così nel film quel concetto tanto caro a tutti i film d’amore: “quando si ama si aspetta e quando si ama il sesso non è sesso, non il solito almeno”. Un cliché che pone ancora di più l’accento del film sull’amore universale che ha le sue leggi uguali per tutti.

È difficile mettere ora da parte questo aspetto essenziale del film, perché è quello che induce il pubblico ad immedesimarsi nella storia di Aldo ed Ettore, sovrapponendo l’universalità dei sentimenti (già toccata in film cult, uno fra tutti Chiamami col tuo nome) alla particolarità dei due uomini realmente esistiti. È difficile perché il Signore delle formiche, pur essendo “liberamente” ispirato è comunque radicato su un fatto di cronaca (terribile), ovverosia l’unica condanna per plagio in Italia inflitta mai, inflitta ad un intellettuale, per punirlo di una relazione omosessuale. Possiamo affermare facilmente che la norma eterosessuale è presente ovunque nella cultura italiana dominante di quegli anni, e il film la rappresenta, lo vedremo, in molto momenti. Ma la bruttezza del caso Braibanti si duplica perché la norma eterosessuale del pensiero comune, non solo ha influenzato vite provate, ma è riuscita a strumentalizzare le istituzioni e a piegare ad uso e consumo la legge e la sua applicazione da parte della magistratura. La norma eterosessuale non esisteva in modo formale nel Codice italiano, non esisteva in pratica una legge contro i rapporti omosessuali. Esisteva però il reato di plagio, ma mai nessuno aveva applicato quella legge che poi fu eliminata.

Riassumendo, il caso raccontato dal Signore delle formiche non è (solo) la storia d’amore fra due uomini, è la storia di un caso di ingiustizia, e tutt’altro che universale, è una storia particolare, situata in un contesto preciso e mossa da persone storicamente esistite. È la storia di una magistratura inadeguata al suo compito, così come l’avvocatura (si pensi alla scena in cui l’avvocato difensore ride a crepapelle ascoltando i testimoni che invocano Padre Pio, senza capire che “quei Padre Pio faranno condannare l’imputato”), è la storia di una sanità altrettanto inadeguata, capace di usare l’elettroshock su un ragazzo sano. Non solo. È la storia di una stampa di sinistra che Amelio non dipinge positivamente e si rileva anch’essa inadeguata.

Al centro del film la storia di due uomini: Ettore e Aldo. Com’è dipinto Ettore? È un giovane iscritto contro voglia a Medicina, che si sente estraneo ai dictat della sua famiglia cattolica e chiusa; seguendo suo fratello, scopre il laboratorio artistico del professor Braibanti e inizia a parteciparvi. Aldo è un ex partigiano, un intellettuale, un uomo di mezza età che viene ritratto come orgoglioso quanto mite, interessato al teatro e alla bellezza.

Intorno a loro girano altre figure cruciali nello svolgimento della storia: sono la madre di Ettore, il giornalista (dell’Unità) Ennio, l’ attivista politica (la cugina del giornalista). Il rapporto fra Aldo ed Ettore appare, nel disegno di Gianni Amelio, come la più classica delle storie d’amore: c’è la differenza d’età, una placida campagna piacentina luogo di idillio e poesia, il maestro che insegna, il discepolo, puro, che beve ogni parola e gesto come acqua di sorgente, sempre col sorriso e l’aria trasognata. Per la loro omosessualità saranno condannati, uno al disprezzo e alla galera, l’altro al manicomio. È presente anche il classico triangolo, ai cui vertici ci sono Ettore, suo fratello e Aldo. Il fratello di Ettore appare invaghito ma allontanato dal professore, rifiutato intellettualmente, ma fors’anche emotivamente, e per questo si vendicherà di lui in tribunale.

I fatti sono così descritti in Wikipedia: “giunto a Roma nel 1962, Braibanti chiede e ottiene la collaborazione dell'amico Giovanni Sanfratello, un giovane di 23 anni che aveva conosciuto nel periodo del laboratorio artistico del torrione Farnese di Castell'Arquato (...) Il 12 ottobre 1964 Ippolito Sanfratello, padre di Giovanni, presenta denuncia alla Procura di Roma contro Braibanti: l'accusa è di plagio. In pratica, Braibanti veniva accusato da Sanfratello di aver influenzato suo figlio e di avergli imposto le proprie visioni e i propri principi. In realtà s'intendeva perseguire la relazione omosessuale dei due”.

Le donne nel film, portatrici di valori, motrici di azioni

È proprio alle donne che è data la patente per “parlare” sui Braibanti. Diversamente dalla cronaca, nel film è la madre di Ettore-Giovanni che muove l’accusa, appare come testimone in aula, interna il figlio. Una madre che piange per lui, nei fatti distruggendogli la vita, paventando la ricerca di giustizia, del tutto antitetica alla madre del letterato Aldo, composta e decorosa. Le due madri sono messe in aperta opposizione in due momenti, quando la signora Braibanti è sfidata in chiesa e intimata di mettere a freno il figlio, e durante il processo. La madre di Ettore, facendo rapire il figlio per ricoverarlo, è sostanzialmente la carnefice del ragazzo ed è la causa di tutto il dipanarsi dei fatti. Portatrice dei valori cattolici, borghesi, conservatori, individua il mostro da sconfiggere in Braibanti e, di contro, individua nel figlio la vittima. Perché sia vittima e non complice, però, Ettore deve essere anche malato, perciò curato. Il tema della omosessualità quale “patologia” è ampiamente mostrata nelle scene dell’elettroshock (mimesi di ciò che è davvero avvenuto in quegli anni al giovane Ettore – Giovanni) ma è anche ribadita dalle parole di un personaggio secondario, l’“avvocatino” – amante dell’attivista politica, la cugina del giornalista Ennio. Proprio l’ “avvocatino” è l’incarnazione dell’uomo “medio” di quel tempo; è a lui che si mettono in bocca le parole del senso comune: “per me o si fanno curare o si uccidono” (nominando l’altro tema tipico della narrazione sull’omosessualità, il destino di morte); “Si protesta per il Vietnam, non per i froci” (ricordandoci così che la politica del tempo non aveva nell’agenda tali questioni). E infine “A me queste cose fanno schifo, non ci posso fare niente” quando accusa Ennio di mettere in bocca alla cugina certi discorsi (politici) che non sono “discorsi da femmina”.

Arriviamo, quindi all’altra figura femminile della storia, l’attivista politica, portatrice dei valori radicali, progressisti, in difesa del professore e attraverso di lui della comunità omosessuale. È lei che sostiene il cugino giornalista, è lei che protesta fuori dal tribunale e simboleggia quei movimenti femministi che avrebbero sostenuto nelle teorie e nei fatti anche il movimento omosessuale.

Il tema del silenzio

Altro tema “classico” nella narrativa omosessuale presente nella pellicola di Amelio è il silenzio. Il silenzio, quando affrontiamo film sull’omosessualità, è legato sempre alla paura, all’identità sessuale da nascondere, alla vergogna, ai diversi motivi per cui, in un mondo eteronormativo, è pericoloso parlare. In questo film è un importante elemento, ma non viene collegato in modo diretto alla paura o alla vergogna.

Braibanti, nella scena in cui viene visitato dal giornalista dell’Unità, gli spiega il suo punto di vista, cioè non vuol essere né mostro, né martire, non vuol parlare perché non c’è nessuna colpa, non c’è nulla da cui difendersi. Il silenzio, sotto la spinta di Ennio (che nel frattempo deve lottare perché la sua di voce appaia sul suo giornale senza ingerenze da parte del direttore) viene rotto e Aldo parla in aula, ma le sue parole sono distorte dal giudice. Così Aldo commenta il dibattimento quasi arreso: “le mie parole qui non hanno valore”.

Le parole di un omosessuale non hanno valore, dunque è inutile pure parlare. Non hanno valore neppure quelle della vittima Ettore- Giovanni che in aula dice chiaramente di aver seguito Aldo a Roma di sua spontanea volontà. La sua deposizione, però, viene ignorata. Il destino, ci dice Amelio, di un omosessuale degli anni ’60 è che le sue parole non hanno peso e che su di lui cade il destino o di umiliazione morale o di persecuzione fisica.

L’identità sessuale onnisciente e l’insegnamento di Foucault

L’ultima riflessione che porto al lettore è quella su di una scena che precede l’arresto e l’internamento e che si lega al tema delle parole e del silenzio. Mentre Aldo ed Ettore sono a Roma, Aldo riceve un importantissimo premio drammaturgico. Invia una lettera a sua madre per darle la bella notizia. Lo spettatore vede la anziana donna con lo sguardo chino sulla lettera, mentre cammina verso il portoncino di casa. Vediamo lei, ma sentiamo la voce di Aldo, come se la lettera parlasse. E poi accade lo strappo, uno strappo al quale Amelio porta lentamente con la camera: si vede che lo sguardo della anziana si alza dal foglio alla porta e d’improvviso la voce di Aldo si spegne, interrotta, come caduta. La madre ha smesso di leggere la lettera perché ha letto “LA CASA DEL CULATON” accanto al suo portoncino. Questa scena fa stridere la voce di Aldo che racconta la sua celebrazione letteraria con il suo silenzio improvviso, mentre una frase di insulto scritta su un muro grida contro un orientamento sessuale. Questa scena, a mio avviso, è una sintesi perfetta di quello che scriveva Michel Foucault e che rielaboro in termini più modesti: quello che sei è quello che fai a letto. Nel mondo occidentale l’identità sessuale pervade ogni discorso, permea di sé il resto della persona e non importa che Braibanti sia stato partigiano, sia letterato, sia apprezzato da molti intellettuali e artisti dell’epoca (che per la cronaca lo difesero), che abbia appena vinto un prestigioso premio in denaro. È la sessualità che è al centro. E se diverge dalla norma della famiglia etero-cattolica, non rimane che una devianza da rimettere in riga, con qualsiasi mezzo. E se è vero che la fiaba drammatica finisce con i due amanti che si rivedono per l’ultima volta in quella campagna di sole, guardandosi negli occhi e riconoscendosi, è vero che sullo sfondo alcuni giovani imitano l’Aida con un disco sottofondo, invece di fare teatro, perché le parole nuove sono morte, e senza parole nuove nessuna identità divergente può affermarsi sulla norma.


Marianna Iodice

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