La Classe. Ripensare la crisi ripensando le organizzazioni.

Una domanda che nessuno più si pone, presi come siamo dalla ricerca di efficienti soluzioni prêt-à-porter è “che cosa è un’organizzazione”. Domanda considerata in-utile quando l’emergenza, la mancanza di risultati, l’incertezza canalizzano le azioni nell’alveo esclusivo dell’attenzione ai costi, spesso interpretato con inevitabili tagli lineari, tagli delle persone, tagli della riflessione. Quest’ultima poi, troppe volte considerata antitetica all’efficienza oppure da confinare in cerchie ristrette, scomponendo così il mondo in chi ha diritto di pensare e chi deve eseguire.

Non sono solo ragioni “economiche”, però, a “costringere” in questa direzione. C’è molto di più.

Cosa è un’organizzazione allora e perché dovremmo porci questa domanda? In realtà non si tratta di scegliere tra differenti modelli da applicare confidando sulla bontà dell’uno rispetto all’altro. Infatti, anche solo nell’ambito di un modello squisitamente gerarchico (aggettivo da sostituire con verticale, perché non dovremmo più permetterci di legittimare la potenziale presenza di uno o più gerarchi), la situazione cambia molto se si lavora, ad esempio, nell’Aereonautica Militare, una delle realtà più rispettose, democratiche, professionali che mi sia capitato di incontrare, o in uno dei molti contesti, imprenditoriali e non, dove i rapporti tra le persone sembrano talvolta inconsapevolmente ispirarsi al sistema delle caste indiane. Si tratta al contrario di domandarsi come e perché stiamo insieme in un determinato modo. E se questo modo è soddisfacente dal punto di vista sociale e funzionale. L’importanza della domanda, e delle possibili risposte, è data dal fatto che la crisi in cui siamo immersi non è solo economica.

È una crisi profonda, antropologica, demografica. Legata all’invecchiamento della popolazione e all’uso di tecnologie che cambiano in concreto il paesaggio emotivo e relazionale di noi tutti. È una crisi ambientale, anche se ci ostiniamo a far finta che sia affrontabile con cure palliative. Ed è una crisi geo politica e bellica: difficile continuare a raccontarsi di vivere in un tempo di pace. L’economista Luigino Bruni dice che la crisi economica è il frutto di relazioni sbagliate e la cattiva distribuzione della ricchezza ne è una evidente testimonianza. Siamo immersi in una crisi di autorevolezza e di solitudine: nonostante la vita biologica e sociale si fondi sull’interdipendenza, i nostri strumenti e le nostre organizzazioni tendono a favorire la separazione tra gli individui attaccando i legami sociali e producendo una conflittualità che ci rende tutti più fragili ed esposti, anche ad “alti” livelli. Parliamo della crisi con la stessa forma mentale dell’automobilista che nel traffico si lamenta di tutti quelli che gli impediscono di avere la strada libera. Non ci rendiamo conto di essere parte del problema e che, così come siamo organizzati, cioè così come abbiamo deciso di stare insieme e di pensare a noi stessi come individui e collettività, la crisi la provochiamo, la legittimiamo, la alimentiamo.

Nel secolo scorso il pensiero occidentale scoprì la complessità. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale, biologi, fisici, chimici, paleontologi, antropologi, psicologi, sociologi, astrofisici, urbanisti, ingegneri, filosofi, poeti, narratori, artisti, architetti, iniziarono a dialogare tra loro. Si parlò anche di “nuova alleanza” tra chi si occupava di materie umanistiche e chi di scienze “dure”, cercando di superare la dannosissima distinzione tra discipline hard e soft. Le prime, “naturalmente” considerate superiori. Queste persone iniziarono a scambiarsi linguaggi ed esperienze e a cercare conferme alle loro intuizioni e scoperte “perdendo tempo” a confrontarsi con discipline diverse dalla propria. Una ricerca in ambito biologico poteva diventare metafora per comprendere meglio il funzionamento di una famiglia. Lo studio del cervello poteva offrire spunti per la realizzazione di macchine speciali come i computer e questi ultimi diventavano metafore per comprendere il funzionamento del sistema nervoso o del DNA. In questo crogiuolo di idee e pratiche che moltiplicò la capacità di comprensione dei fenomeni di cui siamo parte ed ebbe sviluppi clamorosi anche dal punto di vista tecnologico, una delle domande a cui tutti gli scienziati concorrevano a dare risposta era proprio “cos’è un’organizzazione”. E poi di seguito: “cosa distingue una macchina da un essere vivente, entrambi sistemi organizzati?”

A livello più semplice sappiamo che organizzazione significa interdipendenza tra le parti. Però mentre una macchina può essere smontata e rimontata raggiungendo l’identico stato di partenza, se si smonta un cavallo di vivo resta poco. Inoltre mentre una macchina produce qualcosa di differente dalla macchina stessa, ad esempio un telaio produce una tela ma non il telaio stesso, un essere vivente produce sé stesso. L’attività di un essere vivente serve a mantenere nel tempo la propria esistenza. Nel primo caso produttore e prodotto sono diversi, nel secondo coincidono.

Non so dire se dire se un’impresa, la classe di una scuola, una famiglia siano catalogabili come macchine o organismi viventi. La prima ipotesi però sembra prevalere in molte realtà organizzative con conseguenze nefaste. In ogni caso ci sono cose che conosciamo bene per esperienza diretta, indipendentemente dalle definizioni accademiche. Cose che conosciamo perché parte della nostra esperienza quotidiana. Ad esempio sappiamo che se smontiamo un’organizzazione sociale e poi la rimontiamo non sarà mai come prima. Ugualmente se manteniamo la sua organizzazione, ma cambiamo le persone, poiché non esistono due persone uguali e anche soltanto stili diversi possono cambiare la fenomenologia di un ambiente: se il nuovo dirigente, a differenza del precedente, ti dà il buongiorno, cambia la fenomenologia del contesto. Inoltre l’organizzazione produce sempre molti risultati di natura diversa da quelli che sembrano giustificare la sua esistenza. Come il telaio, essa può produrre qualcosa di materialmente tangibile, ma, per fare un esempio, un’impresa automobilistica non produrrà solo automobili. Produrrà anche socialità e cultura: un modo di concepire il mondo e le relazioni tra le persone. Produrrà gerghi linguistici che tenderanno a generalizzarsi ad altri ambiti della vita (si pensi a debiti e crediti formativi, il linguaggio del conto economico migrato e generalizzato all’ambito dell’apprendimento e della pedagogia). Inoltre chi “abita” un luogo di lavoro si fa un’idea di sé stesso e delle altre persone che con lui vivono, coltivata e formattata da sistemi premianti, linguaggi, sistemi di valore più o meno espliciti. Ad esempio attraverso processi di carriera che segnalano chi è in base a quali valori ha diritto al successo e chi invece non lo merita.  Un’organizzazione, quindi, indipendentemente dagli scopi che giustificano la sua esistenza, produce complessità. Non ci sono i nostri comportamenti, le nostre emozioni, le nostre idee e poi le regole, le procedure, le distanze di ruolo, gli spazi, ma ci sono comportamenti, emozioni, pensieri che sono colorati, intessuti e dipendenti da quelle procedure, da quelle regole, da quelle distanze di ruolo e da quegli spazi. In luoghi diversi possiamo pensare, sentire e agire diversamente, senza per questo essere o sentirsi dissociati. Un’organizzazione quindi è un potente algoritmo in grado di “produrre” le nostre esistenze. Una domanda tra le tante può funzionare da esempio: che tipo di idea ci si fa della realtà vivendo tutta la vita professionale in luoghi competitivi dove il successo dell’uno corrisponde all’ insuccesso dell’altro, finendo poi per considerare tutto questo processo come un dato di natura? Quali sono le conseguenze di questo apprendimento sulla nostra vita oltre l’orario di lavoro?

Insomma le organizzazioni producono molto più di un manufatto o un servizio e per quanto si possa trattare di prodotti ottimi, i risultati “collaterali” possono essere pessimi. E contribuire a costituire quel complesso disagio che noi oggi chiamiamo “crisi”.

Le organizzazioni, come gli esseri viventi, producono sé stesse: la loro attività è funzionale a mantenersi in vita, conservando forme, gerarchie, linguaggi, produzioni che spesso vivono ben oltre la loro adeguatezza alla realtà. L’autoreferenzialità, da caratteristica positiva legata al mantenimento nel tempo della vita, oltre una certa soglia può rendere le organizzazioni fenomenologicamente inadeguate a vivere bene. Se le valutiamo esclusivamente con i criteri del mondo economico possono essere molto redditizie per qualcuno e avere i conti in blu, ma come fenomeni umani più ampi, come fenomeni sociali o politici possono essere in rosso in termini di salute individuale, sociale, ambientale. A un surplus di valore economico può corrispondere un grave deficit di valore civile.

La generalizzazione di una banale idea di azienda che riduce tutto a profitto, costi e efficienza in troppi dei luoghi che abitiamo, come la scuola, un ospedale, un luogo di svago, persino una famiglia, è uno degli ingredienti base di una cattiva economia e della nostra crisi permanente. Da questo punto di vista viene da pensare che anche in alcune imprese ci sia troppo aziendalismo per poter sperare che vadano bene o durino a lungo.

Per questo sarebbe utile ripensare le nostre organizzazioni nella loro essenza. Le domande da porsi potrebbero essere “come vogliamo stare insieme, come vogliamo il nostro posto di lavoro e, quindi, come vogliamo il nostro Paese”. Quest’ultima è una domanda squisitamente politica che, a me pare, la politica non sembra interessata a porsi, intrisa com’è di logiche che tendono a separare le persone. In tifosi dell’una e dell’altra parte, in categorie sociali contrapposte e distanti. Distanti dalla politica stessa che dovrebbe rappresentarle.

Ripensare la crisi, quindi, significa anche ripensare le nostre organizzazioni. Cioè gli innumerevoli luoghi dove si impreziosisce o si svuota di senso la nostra vita. Cioè i modi in cui viene organizzata e/o organizziamo la nostra esistenza. La nostra crisi è una crisi epocale che sfugge alle ricette semplici e utilitaristiche. Le organizzazioni che tendono ad aumentare la distanza tra chi governa e chi è governato o che restringono in poche stanze non solo le decisioni, ma anche la produzione di pensiero e di soluzioni condivise talvolta affidandole a pseudo esperti con la funzione di “rassicuratori”, sono parte integrante delle enormi difficoltà che stiamo vivendo. Le soluzioni, anche politiche, che non mettono mai in discussione i rapporti esistenti, non sono soluzioni credibili anche se si ammantano spesso di luccicanti retoriche sull’innovazione. Apparentemente innovative, molte delle soluzioni proposte mantengono intatte le dinamiche di protagonismo esistenti, favorendo la non assunzione di responsabilità da parte di molti e continuando a produrre e alimentare i problemi che promettono di voler risolvere. Siamo immersi, invece, in problemi inediti che vanno affrontati con modalità inedite. E c’è bisogno della cittadinanza operosa di tutti coloro che hanno l’interesse e il desiderio di esserci, perché si tratta di problemi di tutti. Il passato non aiuta e le soluzioni pronte si trovano solo in gastronomia, nella moda, all’Ikea e alle pompe funebri.

(Questo articolo, in forma più sintetica, è stato pubblicato sul numero di marzo de "l'Impresa", mensile di management del Gruppo Sole 24 Ore)


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