La gioia scoppia e la si grida (sulla condivisione al tempo dei social network, e anche prima)
Quando eravamo giovani e nessuno aveva mai sentito la parola computer, avevamo le bacheche e i tazebao, le locandine fatte a mano con i pennarelli, i volantini tirati al ciclostile. Il bisogno di farsi sentire era lo stesso di oggi anche se non cliccavamo, identico a quello dell’antenato che copriva di graffiti la caverna.
Quando mio figlio ha imparato a leggere, ho cominciato a usare la porta di casa come pannello. Ci ho attaccato cartelli e foto per celebrare il suo compleanno, le tappe scolastiche e altri momenti importanti, palloncini, ghirlande e decorazioni assortite. La gioia è un sentimento che cerca condivisione, scoppia e vuole uscire. I vicini ormai si sono abituati, passano, li sento che commentano, qualcuno prende una penna e aggiunge i suoi auguri.
Non mi è mai venuto in mente di far sapere di un dolore attaccandolo allo stipite. La sofferenza è una emozione introversa, o intima, chiede chiusura: la porta resta un legno, blindata. E così mi fanno sorridere i post sui social network che lamentano la mancanza di brutte notizie, come mai pubblicate solo le cose belle che vi capitano eh, delle brutte non ne parlate, mi pare ovvio, una bacheca, virtuale o meno, non è mica il telegiornale. Nemmeno quella aziendale, troppo spesso un’occasione persa.
Essere contenti e dirlo a tutti, gridarlo qualche volta, coinvolgere nella propria felicità è così profondamente umano e così bello. È un contagio a trasmissione veloce, si attacca agli altri e accende una luce. Solo fa eccezione l’invidioso, l’arcigno contabile, ma come, il dare e l’avere delle notizie non torna. Eh no, e meno male.