La Legge Pinto della Legge Pinto.
L’Irragionevole durata del giudizio innanzi alle Corti D’Appello.
E’ noto che l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, prima, e poi la legge Pinto, ha stabilito in 6 anni il termine complessivo e ritenuto ragionevole per la durata di un processo, articolato nei tre gradi di giudizio, ( 3 anni per il giudizio di primo grado, due per quello di appello, ed uno per il giudizio in Cassazione). La legge Pinto indica poi i giudizi per i quali è previsto un termine diverso di durata . Infatti nel caso del giudizio di esecuzione viene indicato come congruo il termine di 3 anni. Tuttavia in queste eccezioni non si rinviene alcun riferimento al giudizio che viene promosso proprio ai sensi della Legge Pinto, cioè quel giudizio che consente a coloro che hanno subito un processo dalla irragionevole durata, di essere indennizzati per il ritardo nella definizione del processo. Questa omissione della Legge Pinto ha indotto a ritenere che anche al giudizio innanzi alle Corti d’appello, promosso per l’irragionevole durata di altro processo, dovesse applicarsi il termine di 3 anni per il primo grado e di un anno per il giudizio in Cassazione. Questa conclusione però è da subito risultata stridente con lo spirito della legge, che ha lo scopo di garantire una durata congrua dei processi. Infatti il giudizio innanzi alle Corti d’appello ex legge Pinto è alquanto semplice non richiedendo alcuna attività istruttoria tale da giustificarne una durata pari a tre anni.
Non stupisce quindi che la questione sia stata portata all’attenzione della Corte Costituzionale, che si è così pronunciata:
“La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito, è fondata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
Dalla giurisprudenza europea consolidata si evince (sentenza n. 49 del 2015) il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi contro Italia; sentenza 27 settembre 2011, CE.DI.SA Fortore snc Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia; sentenza 21 dicembre 2010, Belperio e Ciarmoli contro Italia).
Ne consegue che l’art. 6 della CEDU, il cui significato si forma attraverso il reiterato ed uniforme esercizio della giurisprudenza europea sui casi di specie (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale.
Quest’ultima, in applicazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., alla luce dell’interpretazione data dal giudice europeo all’art. 6 della CEDU, aveva in precedenza determinato il termine ragionevole di cui si discute, per il caso di procedimento svoltosi in entrambi i gradi previsti, in due anni, che è il limite di regola ammesso dalla Corte EDU.
Inoltre, questa Corte ha recentemente precisato che la discrezionalità del legislatore nella costruzione del rimedio giudiziale in questione, e in particolar modo nella specificazione dei criteri di quantificazione della somma dovuta, non si presta «in linea astratta ad incidere sull’an stesso del diritto, anziché sul quantum» (sentenza n. 184 del 2015), come invece accadrebbe se, per effetto della norma censurata, dovesse venire integralmente rigettata la domanda di equa riparazione.
Ne consegue che la disposizione impugnata, imponendo di considerare ragionevole la durata del procedimento di primo grado regolato dalla legge n. 89 del 2001, quando la stessa non eccede i tre anni, viola gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., posto che questo solo termine comporta che la durata complessiva del giudizio possa essere superiore al limite biennale adottato dalla Corte europea (e dalla giurisprudenza nazionale sulla base di quest’ultima) per un procedimento regolato da tale legge, che si svolga invece in due gradi.
L’art. 2, comma 2-bis, va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001“.Corte Costituzionale sentenza n. 36 del 2016
Avv. Filomena Iervolino